Tra dissidenza e provocazione

Il visionario artista cinese espone per la prima volta in Italia opere già note, ma anche inedite e site-specific. Ai Weiwei – Libero, a Palazzo Strozzi di Firenze, divide la critica e accende la curiosità.

Le installazioni iniziano all’esterno del famoso palazzo rinascimentale, proprietà della ricca famiglia Strozzi (antagonista dei Medici nella Firenze del 1440), con ventidue  gommoni arancio-evidenziatore che fanno da cornice ad altrettante finestre del piano nobile dell’edificio. La polemica sulla mostra parte proprio da queste fin troppo popolari imbarcazioni usate dai migranti alla ricerca dell’Eldorado europeo. Coloro che sostengono la tesi della strumentalizzazione, si accaniscono contro l’artista cinese accusandolo di cavalcare l’onda delle migliaia di storie di disperati alla ricerca di vite più umane.

A questo proposito si possono usare innumerevoli argomentazioni, ma se è vero che la popolarità (e anche le entrate economiche) fanno gola anche all’artista meno imborghesito, Ai Weiwei non necessita di popolarità – acquisita internazionalmente nei suoi diversi anni di dissidenza e provocazione politica contro il governo cinese – né tantomeno di proventi derivanti da false ideologie utili ad accecare nuovi estimatori della sua arte e lotta politica. Nel 2011, accusato di evasione fiscale, per un illecito dell’azienda di design aperta con la moglie, il giardino della sua casa è invaso da banconote ripiegate ad aeroplanino per oltrepassare il muro di cinta, così come i tavoli del suo studio sono letteralmente ricoperti da milioni di lettere contenenti yuan (la moneta cinese), inviate dai suoi sostenitori per saldare la sanzione governativa. Coloro che hanno offerto quei soldi, lo hanno fatto per la sua causa, ossia la libertà di espressione – scopo sia del suo fare artistico che credo politico – rischiando, a loro volta, di essere perseguitati o incarcerati. Se lui è un provocatore, le autorità cinesi certo non gli facilitano la strada e, ancora oggi, non sappiamo la verità sull’accaduto. Nel 2008, per citare un’altra strana vicenda che lo ha visto coinvolto, le autorità di Shanghai lo invitano a costruire uno Studio a Malu Town; il giorno dell’inaugurazione, nel 2010, le stesse autorità ne decidono la demolizione per mancanza di permessi e l’artista viene messo agli arresti domiciliari.

Una vita contrassegnata dalla censura e dalla violazione dei diritti civili, quella di Ai Weiwei. È il 1959, infatti, quando entrambi i genitori sono rinchiusi in un campo di rieducazione, in quanto poeti – considerati estremisti dal regime comunista di Mao Zedong. L’intera vicenda – umana e artistica di Ai Weiwei – è ripercorsa dal docufilm The fake case, del regista danese Andreas Johnsen. La pellicola mette in dubbio le accuse a carico dell’artista, imputategli dalle autorità cinesi, con continui interrogativi che sollecitano la ricerca della verità. Purtroppo, però, lo stesso video – che vorrebbe essere una denuncia contro le falsità del Governo – dà informazioni non attendibili sul sistema fiscale cinese. Nel video, infatti, Ai Weiwei sostiene che in Cina non si pagano le tasse e, quindi, asserisce che l’accusa di evasione fiscale a suo carico sia una montatura – quando, al contrario, è ben noto che in Cina vi è un sistema di imposizione fiscale, simile al nostro Irpef, che prevede una tassazione progressiva a scaglioni per fasce di reddito. A che scopo, quindi, le affermazioni dell’artista? Cosa vuole trasmettere? Vuole nascondere la verità, o la sua è una forma di provocazione? E se vuole suscitare un qualche dibattito, come può farlo se il pubblico non ha le informazioni per capire che la sua è solo una boutade – non potendo sapere qual è il regime fiscale cinese? Forse la curatela avrebbe dovuto approfondire l’argomento dando maggiori ragguagli ai visitatori.

D’altro canto, chi muove critiche troppo aspre contro di lui, dovrebbe forse conoscere più a fondo la vita di quest’uomo – così da giudicare con maggiore obiettività il suo percorso umano da contestatore temerario. Un artista dissacrante e provocatorio, Ai Weiwei, non per scelta ma per vocazione naturale. In un Paese, dove la legge e la censura non sono certo ostacoli alla libertà di espressione da sottovalutare.

Tornando alla mostra fiorentina, la stessa si apre con una hostess in tailleur, incaricata del controllo delle entrate. E prosegue con alcune centinaia di mezzi telai e ruote, messi l’uno sopra l’altro a formare un tunnel, che pare pubblicizzino la famosa azienda Bianchi – la più antica fabbrica di biciclette al mondo, ancora esistente.

Il primo impatto con l’esposizione di Ai Weiwei è più olfattivo che visivo: un forte odore di gomma entra subito in gola e non abbandona il visitatore che un paio di sale più avanti. L’opera è intitolata Stacked (Impilate) e si rifà alla Ruota di bicicletta del 1913 di Marcel Duchamp, artista al quale Ai Weiwei è molto legato. Un implicito rimando all’idea di libertà; all’unico mezzo a disposizione, nella sua infanzia nella Cina comunista; e all’impatto ambientale che gli attuali mezzi di trasporto hanno nella Repubblica Popolare cinese – oggi afflitta da spesse cortine di polveri sottili irrespirabili.

Poco più in là, nella sala adiacente, un serpentone allestito con zaini da studente, simbolo delle migliaia di bambini periti nel disastroso terremoto del Sìchuān. Avvenuto  nel maggio 2008, provocò il crollo delle scuole costruite, si pensa, con materiali scadenti (triste epilogo che sembra ripetersi nella maggior parte del mondo). All’epoca, Ai Weiwei chiese resoconti al Governo cinese e, in mancanza di risposte sul numero preciso dei morti (circa 70.000), lanciò una campagna online per raccogliere i nomi dei bambini rimasti sotto le macerie (arrivando a circa 5.000). Il 29 maggio 2009 Il blog – che raggiungeva centomila contatti al giorno – fu momentaneamente oscurato dal Governo.

La libertà di Ai Weiwei, incarcerato nel 2011 e poi costretto agli arresti domiciliari (nel periodo in cui la rivista Art Review lo definisce come l’artista più influente al mondo), gli è restituita il 22 luglio 2015. Da quel momento l’artista riceve numerosi riconoscimenti e allestisce diverse mostre in giro per il mondo, oltre ricoprire l’incarico di professore ospite dell’Università di Berlino.

Ai Weiwei – Libero, come da titolo della mostra, è finalmente una realtà. Ma, a dire il vero, con le autorità cinesi non è obbligatoriamente una situazione definitiva: dalle battute stesse del video di Johnsen, proiettato per intero nell’ultima sala dell’esposizione, si percepisce che adesso è così, ma in futuro non si può immaginare come possa evolversi lo stato dei rapporti tra l’artista e il Governo.

Dei migranti, all’interno della mostra, è doveroso ammettere che non si fa più cenno. L’artista, però, ha già allestito varie installazioni su questo tema. Ad esempio, a inizio anno, a Lesbo, ha raccolto 14.000 giubbotti salvagente lasciati sulla spiaggia dai rifugiati provenienti dalla Turchia – con i quali ha ricoperto la Konzerthaus di Berlino.

La mostra di Ai Weiwei? Un’occasione da cogliere al volo, soprattutto se si vuole conoscere la storia personale di un artista che suscita forse troppe polemiche per argomenti che esulano dalla sua arte.

La mostra continua:
Ai Weiwei – Libero
installazioni, fotografie, video

Palazzo Strozzi
piazza Strozzi – Firenze
fino a domenica 22 gennaio 2017
rassegna a cura di Arturo Galansino, Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi