Ritratti d’autore

A più di dieci anni di distanza dai fatti di Genova, le parole e i disegni di Christian Mirra sono l’ennesima occasione per ripensare e interrogarsi su uno spaccato tragico e indimenticabile della Storia d’Italia.

Si è concluso, in fase di appello, il processo per i fatti di Genova 2001. Il 5 Luglio la Cassazione conferma in via definitiva le condanne per falso aggravato. Convalida la condanna a 4 anni per Francesco Gratteri, attuale capo del dipartimento centrale anticrimine della Polizia; convalida anche i 4 anni per Giovanni Luperi, vicedirettore Ucigos ai tempi del G8, oggi capo del reparto analisi dell’Aisi. 3 anni e 8 mesi a Gilberto Caldarozzi, attuale capo servizio centrale operativo. Il capo della squadra mobile di Firenze Filippo Ferri è stato condannato in via definitiva per falso aggravato a 3 anni e 8 mesi e all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. In parte convalidata anche la condanna a 5 anni per Vincenzo Canterini, ex dirigente del reparto mobile di Roma.

La polizia italiana e i suoi funzionari, sono stati dunque ritenuti colpevoli per gli atti di violenza di Genova 2001 e per il tentativo di depistaggio e insabbiamento delle indagini.

Intervistiamo Christian Mirra, testimone e vittima dei pestaggi alla Scuola Diaz durante il G8 di Genova e autore del graphic novel Quella notte alla Diaz.

Ricordiamo che all’inizio del processo è stata addotta come motivazione all’irruzione nella scuola Diaz la presenza di armi e materiale eversivo, nascosto dai manifestanti che dormivano nell’istituto. Da qui il pestaggio ai manifestanti, un attacco a freddo, violento come pochi. Si vociferava che i poliziotti fossero drogati, o fomentati da un addestramento apposito, per prepararsi all’offensiva.
Christian Mirra: «Ti rispondo così: recentemente è stato pubblicato un libro di Giacomo Gensini, ex celerino che ha partecipato al servizio d’ordine del G8, dal titolo Genova sembra d’oro e d’argento. Nel romanzo a parlare è il celerino Dario, appartenente al settimo nucleo speciale, preparato appositamente per il G8 di Genova. Gensini stesso, nel racconto, condanna l’irruzione, anche se ripete spesso come non fosse in quel momento possibile distinguere tra black block e manifestanti. Gensini descrive la preparazione del gruppo scelto per il G8 di Genova come un vero allenamento all’odio, un incitamento alla guerra. Il gruppo veniva fatto correre fino a sfiancarsi, qualcuno vomitava per il troppo sforzo e, quando cadevano a terra, arrivavano altri celerini e li pestavano. Se i poliziotti non reagivano, arrivavano i superiori e li rimproveravano, per la mancata reattività. In quello stesso periodo, i telegiornali e la stampa diffondevano comunicati dei servizi segreti sulla scoperta che i manifestanti si stavano preparando per Genova con siringhe di sangue infetto, o palloncini ricoperti di stagnola per disturbare i sistemi radar degli aerei. Per non parlare della bomba recapitata nella sede del tg4 in quegli stessi giorni. Sembra assurdo, ma è così».

Come giudica la chiusura giudiziaria dei fatti di Genova?
C.M.: «Sicuramente ci aspettavamo una sentenza più efficace, ma è anche avvenuto un fatto storico in Italia: per la prima volta la polizia è stata condannata dallo Stato. Quello che occorre ora è la messa in atto di riforme, con l’inserimento del reato di tortura nel Codice Penale italiano. L’Italia ha firmato una convenzione più di dieci anni fa, ma nel paese di Beccaria non c’è una legge contro la tortura. E occorre una riforma anche nell’educazione delle forze dell’ordine, una rieducazione. Una volta un poliziotto mi disse: Tu sei un bravo ragazzo, ma a volte, quando c’è erbaccia, bisogna potare tutto il campo, è così. Quell’uomo non aveva la minima idea che quel che stava dicendo era anticostituzionale. La legge dice esattamente il contrario: bisogna separare e identificare ogni singolo filo d’erba».

Ha provato a raccontare Genova con il graphic novel Quella notte alla Diaz. Quando ha cominciato a lavorare al progetto?
C.M.: «Ho iniziato a disegnare lo storyboard tra il 2003 e il 2004, mentre la pagina centrale è l’evoluzione di un disegno che feci, una settimana dopo Genova, per il centro sociale Depistaggio di Benevento. Il lavoro vero e proprio è partito nel 2008 ed è durato un anno intero».

Ci pensava a Genova, mentre disegnava?
C.M.: «A volte mi rendevo conto di avere un distacco emotivo incredibile, altre volte mi fermavo mentre disegnavo e pensavo: ma questo sono io! La fortuna è questa mia capacità di alienazione, quando disegno; mi capita fin da quando ero bambino. Nella vita reale è diverso. Per esempio, non riesco ad andare alle manifestazioni».

L’uccisione di Carlo Giuliani è stata il culmine di un momento di tensione tragico. La dinamica dei fatti è ancora elemento oscuro. È stato condannato come unico responsabile il poliziotto Mario Placanica. Cosa pensa di questa condanna?
C.M.: «Intanto, c’è il sospetto fondato che non sia stato nemmeno Placanica a sparare. Una cosa accertata è invece che il defender dei carabinieri, da dove partì il colpo che uccise Carlo, non era bloccato. Le immagini che si diffusero sui giornali e alla televisione dimostravano che il mezzo era incastrato, ma le foto furono scattate con teleobiettivi che schiacciano visivamente le immagini; la distanza, poi accertata, del defender era di sei metri. Le foto che evidenziavano la reale distanza circolavano, ma i giornali non le pubblicavano».

A chi, a cosa può giovare una strategia di questo tipo?
C.M.: «Lo ha detto Cossiga, in un articolo pubblicato da un quotidiano nazionale, a chi e a cosa serviva, e comunque non c’è nemmeno bisogno di un processo per condannare istantaneamente quello che hanno fatto dopo, oltre al depistaggio di fronte alle telecamere. A Carlo hanno spaccato la testa, gli sono passati sopra due volte con la macchina. Anche se fosse stato un teppista, un violento, non potevano fare quello che hanno fatto. Molti italiani hanno pensato e detto che Carlo Giuliani se l’è meritato. A molti italiani è bastata un’immagine per pensare che fosse colpevole. Funziona così: prendi una menzogna, la ripeti all’infinito e diventa la verità condivisa».