Cronache dell’immaginario

Comprendere l’arte contemporanea e soprattutto le tendenze più significative dell’arte degli ultimissimi anni, significa comprenderne l’approccio eretico e blasfemo, senza l’ambizione di risolvere contraddizioni relative al rapporto tra l’arte e le altre dimensioni proprie della società attuale.

Il dibattito sul rapporto tra arte e mercato è un dibattito che ha segnato tutta la modernità culturale dell’Occidente, fin da metà Ottocento; nel corso di quasi due secoli, questo rapporto tra arte e mercato ha assunto innumerevoli forme, rinnovando continuamente le considerazioni di tipo teorico e antropologico, e soprattutto trasformando continuamente le categorie proprie dell’estetica e la stessa idea di arte. In questo ordine di problemi si è posto anche il conflitto ideologico che ha caratterizzato il secondo Dopoguerra, relativo alla mai pacificata diatriba tra “cultura alta” e “cultura bassa”, tra arte e consumo. In altre parole, da Charles Baudelaire arrivando a Jeff Koons, passando per la Pop Art, l’ambito dell’arte si è posto come problema “strutturale” e costitutivo quello del suo rapporto col mercato: rispetto alla tradizione antecedente, l’arte moderna è consapevole della sua necessaria confluenza con la cultura di massa, dal momento che i suoi prodotti sono da subito inscritti all’interno del circuito delle merci.

In realtà, il movimento di “abbassamento” dell’arte, scesa dalla sua torre d’avorio e intenzionata ad abitare lo spazio popolare della nuova società dei consumi, è sempre stata una mistificazione: gli artisti che hanno cavalcato la confluenza di arte e mercato, di dimensione artistica e successo mediatico, proponendo una definitiva abolizione del confine tra cultura elitaria e cultura popolare, in realtà non hanno che reiterato tale confine, continuando a celebrarsi nella dimensione artistico-elitaria. In altre parole, snaturare la dimensione artistica è stata un’azione concettuale però iscritta all’interno dei confini dell’arte, e perciò l’arte è restato ed è il recinto all’interno del quale tali personalità hanno messo in questione l’arte stessa. L’approccio schizofrenico e paradossale è stato a senso unico: la nobiltà del discorso artistico non è stato mai messo in questione, esso non si è mai autenticamente snaturato, dal momento che il suo “abbassamento” alle esigenze del mercato è avvenuto in maniera cosciente, volontaria, deliberata.

L’attuale scenario artistico-culturale, se è veramente disposto (al di là dei proclami progressisti) a inoltrarsi nella confusione e convergenza di sperimentazione linguistica ed esigenze economiche dettate dalla società dello spettacolo, deve rivolgersi a quegli interpreti che si focalizzano sull’altra dinamica, complementare alla prima ma oggi ben più incisiva e importante: da un lato gli artisti che, per definirsi tali, mantengono il criterio e il valore della categoria “arte” come è stata storicamente sempre compresa, per poi sporcarla e contaminarla rivolgendosi alla popular culture rimanendo però nella dimensione della creatività artistica; dall’altro lato, le icone della pop culture che invece sono iscritte in una dimensione extra-artistica, da subito rivolte alle dinamiche massmediali del successo e della promozione, che si avvalgono delle categorie dell’arte per potenziare ulteriormente la loro presa sull’immaginario.

Facciamo riferimento al caso maggiormente esemplificativo: il rapporto tra Lady Gaga e il già citato Jeff Koons, che determina un’ulteriore sviluppo rispetto al rapporto tra i Velvet Underground e Andy Warhol della fine degli anni Sessanta. Se infatti la band storica di Lou Reed si poneva da subito come una realtà sperimentale per lo stesso linguaggio rock, dallo stile a suo modo sofisticato per quanto lo-fi, Lady Gaga è l’autocelebrazione del Pop non inteso come Pop Art, ma nella sua diretta connessione col consumo massivo. Lady Gaga è il risultato dello sviluppo estremo della nevralgia di arte e mercato, espressa nella inversione delle categorie (dalla Pop Art, ad Artpop, non a caso titolo di uno dei suoi dischi): per quanto arte e cultura pop si fossero sempre contaminati, l’arte manteneva la priorità, come se a lei spettasse la pratica di contaminazione per una sua presunta superiorità spirituale. L’autentica fusione si è avuta proprio quando l’arte ha perduto tale superiorità lasciando alla popular culture le redini del gioco, che ha iniziato a sfruttare i principi e le categorie dell’arte: non è più l’arte ad attingere alla cultura di massa (le statue di Michael Jackson di Jeff Koons e le serigrafie di Warhol) ma è la cultura di massa ad attingere dall’arte. Lady Gaga si è costruita attraverso l’universo dell’arte per autocelebrarsi come icona Pop, non per diventare un’artista né tanto meno per venire pietrificata come accaduto a Michael Jackson: la rivoluzione autentica e non solo acclamata e recitata nel mondo della cultura artistica sta avvenendo solo nel momento in cui il discorso relativo all’arte sorge e si costruisce fuori dell’arte, altrimenti tutto si riduce a un’autocompensatoria tautologia, dove l’arte mette in questione se stessa, pone i suoi stessi limiti per superarli, si disprezza, si autolesiona masochisticamente ma godendo sempre di se stessa. Nel frattempo i videoclip musicali, l’industria mainstream della musica pop e rock, il cinema commerciale, i linguaggi della promozione pubblicitaria sul web, la serialità narrativa alimentano la loro ricerca grazie a categorie estetiche che vengono esteriorizzate dalla sfera specifica delle arti.