Karaoke nostalgico e luminescenti bruciature

L’8 e il 9 giugno il Complesso del Vittoriano ha aperto le porte all’antologia di un’artista rivoluzionario che cambierà notevolmente l’orizzonte dell’arte contemporanea nei prossimi anni.

Compagna solitaria la nostalgia accompagna ogni ora, ogni minuto e ogni secondo di ciascuno nella vita di tutti i giorni. Chi dice di non provarla di solito mente, perché non si può non provare un sentimento così poetico e sublime, che culla così amorevolmente il pensiero e l’azione di ogni essere umano, conducendolo oltre che sulle terre vergini di un pianeta solitario dove il sonno è dolce, anche su sentieri di strade già battute che si sceglie di ripercorrere nel presente, per ritrovare emozioni e benessere persi con lo scorrere del tempo. È il senso della nostalgia che limita l’uomo nella sua condotta e nelle sue titaniche imprese, poiché nulla di nuovo può succedere guardando sempre il passato; eppure a volte è proprio da questo guardarsi indietro che possono essere intraprese strade ignorate, nascoste dal vestito seducente del presente. Una di queste vie è stata resa visibile nell’antologia dell’artista romano Dicò presso l’Ala Brasini del Complesso del Vittoriano a Roma, che ispirato dallo sconvolgente senso malinconico è riuscito a incantare come non mai gli spettatori, rimasti abbagliati da un’arte così sensibile alle vere esigenze dell’anima, che nella contemporaneità vengono mutuate da finte necessità.

Neon, combustioni e colori si fondono per dar vita ad una moltitudine unica di veri capolavori d’arte contemporanea, dove ritratti di icone immortali si susseguono in un allegro e spettacolare karaoke della memoria. Nella stanza a festa si potevano riconoscere i volti della magnetica Marilyn Monroe, dell’irresistibile Charlie Chaplin, di Andy Warhol, e di leader come la regina Elisabetta, del presidente John Kennedy e del dittatore Mao, e ancora dell’enigmatica Gioconda, del geniale Einstein, dei combattivi Mohammad Ali e Tyson; ma all’appello non mancavano certo i simboli che hanno rivoluzionato un’intera generazione, come il vecchio pacchetto bianco e rosso delle Marlboro, il dollaro e la bandiera americana e i cartoni animati di Braccio di ferro e Capitan America; inoltre si ritrovava anche il ritratto con l’immancabile fulmine di David Bowie, che è da poco entrato nell’olimpo di coloro che hanno fatto la storia, e per finire l’immagine del Cristo in croce che rimane l’unico a superare e oltrepassare le maglie della storia.
Visi e dettagli resi irreali dal colore saturo e acido sono custoditi in teche di materiale plastico trasparente, elemento che diviene però non mero contenitore, ma si fa parte integrante della composizione con i suoi dettagli sciolti e dissolti nell’atto distruttivo causato dal fuoco, che brucia e plasma la nuova patina, realizzando una scultura tridimensionale, che va a sposarsi con i ritratti sottostanti. È un matrimonio felice quello che si instaura tra la pittura e la scultura, felice anche se racchiude in se il sapore agrodolce della nostalgia: il nuovo si mette in relazione con il vecchio, l’estetica del piacere, evidenziata dall’uso di luci al neon e colori vibranti, viene affiancata a quella della decadenza, indicata dalle bruciature e dallo scioglimento della plastica che avvolge le figure.

 

Il fruitore si ritrovava immerso in una dimensione temporale passata: l’epoca persa degli anni ’60, tempo in cui la globalizzazione arrivò al suo apice di espansione con l’America che assurse al compito di guida condottiera alla conquista del globo; come diceva Sgarbi ritrovandosi nel cuore pulsante della sala “si viene proiettati al centro di un mondo in espansione” eppure proprio per questo motivo l’esibizione rivela il suo limite di chiusura, restringendosi e ripiegandosi su se stessa, poiché l’espansione quando è massima finisce per consumarsi e regredire in una contrazione, che va ad includere un mondo ormai utopico. Sbalzati dal tempo comune e relegati in un universo perfetto rispetto alla realtà, l’idea della confezione svela la sua presenza (vissuta anche tramite l’allestimento formato da impalcature, che vanno a contenere le sculture) e circoscrive i ricordi come una cornice fa con le foto. Ancora una volta il deterioramento dello stato plastico diviene emblema della fine e della chiusura al mondo odierno. È strano come le persone vengano attratte come falene dal senso di consunzione, che permea lo stato dell’essere. Assistere alla fine è un’esperienza che suscita piacere, e forse l’idea geniale di Dicò è proprio questa, egli è riuscito a individuare la perversa tendenza umana volta all’attrazione per la rovina, ed è stata questa intuizione che ha reso tutta la sua opera estremamente contemporanea e coinvolgente. Lo spettatore viene ferito da una freccia che fa breccia nella sua armatura di persona morale, ma la verità è ben più lontana.

Evidente è l’influenza prodotta dalla Pop Art americana e dall’arte di Burri nel lavoro di Dicò; ovviamente queste due tendenze sono facilmente riscontrabili, la prima nella scelta dell’immaginario a cui attingere, la seconda per l’utilizzo degli strumenti del fuoco e del collage per dare una caratteristica impronta materica ai lavori. Nonostante ciò l’arte di Dicò si distanzia notevolmente da queste due correnti, e non cade mai nel banale o nella copia, perché il procedimento intrapreso dall’artista è inverso rispetto a quello esperito Warhol. Si può parlare di un neo-pop per Dicò, che non mitizza mai le icone ma piuttosto recupera immagini già massificate riconducendole ad un’unicità esistenziale, che nel lavoro della Pop Art si perdeva. L’unicità e la riscoperta del lavoro artigianale rendono ancora più affascinanti le pitto-sculture e le icone del tempo che riacquistano finalmente la loro identità. Inoltre per quanto riguarda il riferimento a Burri, va notato che quest’ultimo utilizzava l’elemento immateriale del fuoco in combinazione con la poetica della casualità, in questo caso invece la distruzione si rende manipolabile e quindi anche estetica. Le bruciature sono belle, poiché scelte e controllate dalla mano di chi le provoca, in più Dicò non si limita ad avvalersi solo del registro astratto per le sue opere come invece faceva Burri; egli riesce a creare una realtà altra fatta di figurazione e astrazione.

È una visione crepuscolare quella di cui parlava Sgarbi a proposito di queste opere e non potrebbe essere che così, il sublime e la memoria fuoriescono da ogni opera emozionando il fruitore che viene completamente rapito dalla sovrapposizione di strati infiniti di colore, immagini, oggetti e luci. Magnetiche le opere di Dicò divengono faro nella notte tempestosa del presente e si aggiungono ai simboli nell’abisso dell’immaginario collettivo, che delinea costantemente il modo di approcciarsi alla realtà; ciò è anche facilitato dalla complessità e dalla macchinosa articolazione intrinseca nelle opere, che si adattano ancor di più a rapportarsi con l’evidenza di un presente anch’esso complesso e ambiguo. L’attenzione per l’unicità del lavoro dà poi quel tocco in più, smascherando la contraddittorietà e l’ipocrisia del mondo artistico contemporaneo, che si affida alla copia non ragionata e alla semplicità e banalità delle idee, critica sottintesa anche all’arte e alla grafica digitale (bisogna ricordare che Dicò è stato legato anche al mondo della grafica), che se non ideate con coscienza perdono la loro originalità e la loro forza espressiva, come constatava il designer Massimo Vignelli. Unicità, nostalgia e sensibilità fanno di Dicò e della sua opera un’eccezione impensabile nell’arte di oggi, una stella cadente già consacrata che modificherà notevolmente il campo artistico negli anni a venire.

La mostra continua:
Ala Brasini del Complesso del Vittoriano
Via San Pietro in Carcere
da giovedì 8 giugno a venerdì 9 luglio

Dicò – Combustioni
curatore Lamberto Petrecca