L’attimo eterno

lucca-luccaAl Lucca Center of Contemporary Art, fino al 3 novembre, la bella mostra su Henri Cartier-Bresson: quando la fotografia si fa arte.

Una serie di scatti da tutto il mondo sono esposti, su due piani, al Lucca Center of Contemporary Art, per un’ampia retrospettiva del genio della macchina fotografica, Henri Cartier-Bresson.
Un viaggio nel tempo e nei ricordi, evocati da un fragilissimo scatto, grazie a immagini in bianco e nero che si susseguono, fitte, nelle sale d’esposizione lucchesi. Ogni fotografia è scelta con cura: basta osservare i frammenti dei corpi – una gamba, un braccio – della segretaria anni 60 e del recluso – che spuntano, la prima da un séparé che cela tailleur e “contenuto” e la seconda dalle sbarre della cella – per accorgersi che in quella mutilazione si esplica,  senza bisogno di parole, l’assoggettamento di entrambi e di un’intera società che li esprime e ne è specchio.

Cartier-Bresson è l’attimo fuggente che racconta il presente ma anche il viaggio, la transizione, l’instabilità individuale e collettiva. Si passa, non a caso, dai Last days of Kuomintang (1949), all’India dell’esplosione demografica (già nel ’47) – con foto che denunciano spietatamente le troppe mani tese per una sola offerta, l’inquadratura artisticamente perfetta di un bambino denutrito accanto alla ruota di un carro, un groviglio inestricabile di corpi arrampicati su un albero per assistere ai funerali del Mahatma Gandhi.

La verticale domina, invece, nei grattacieli di New York (1947), contrastando con l’uomo accovacciato accanto a un gattino. Mentre la forma triangolare, per questo maestro dello scatto rubato eppure in grado di costruire geometricamente – nello spazio di un secondo – ogni inquadratura, ritorna in altre opere: i due personaggi – uno seduto e l’altro sdraiato – in una landa desolata – che esprimono una solitudine da stretta al cuore. La stessa che si prova di fronte a una Manhattan (New York City, 1946), vista dall’Hudson, che sembra emergere illesa e fumosa da un bombardamento; ma anche alla periferia romana di pasoliniana memoria, che disordinatamente cresce sotto lo sguardo di tre giovani borgatari; o ai tre lavoratori persi nel gelido biancore siberiano.
E ancora, nei ritratti – più espressivi di un universo personale di un’intera autobiografia – dove capita di incontrare un Pierre Bonnard – uno dei padri dei Nabis – immerso in quello che, anziché uno studio, appare una povera baracca scrostata, tra disegni e scritti, con uno sguardo perso e un atteggiamento che suscita tenerezza, attenzioni e un abbraccio affettuoso. Al contrario di un Ezra Pound, che emerge in tutta la sua ruvidezza. Ma le colombe del ritratto di Matisse sono vere, o solamente una copia del maestro Fauve? E ancora, il Giacometti sfocato – perché in movimento più delle sue statue che camminano – è in se stesso quasi un’ironica denuncia della falsità dell’immagine artistica.
Volti, tanti, e ognuno dotato di una propria specificità – da quelli universalmente noti, come Sartre, agli anonimi che esprimono la propria condizione sociale in uno sguardo (Calle Cuauhtemoctzin, e le donne in vetrina a Mexico City – invece che ad Amsterdam) o la lascivia di Alicante (Valencia Province, 1933).
Ritornando ai ritratti che, in un click, spiegano concetti economico-sociali da tomi universitari, ci imbattiamo in un grasso rappresentante del più sfacciato capitalismo made in Us con tanto di sigaro in bocca – in tempi in cui, negli States, non imperversava ancora il proibizionismo sul fumo; o nel poster che invita a succulenti banchetti per matrimoni mentre una vecchia si trascina dietro, a fatica, una bambina, in un vicolo sudicio.

Ma le immagini suscitano anche inquietudini meno seriose, virando quasi al surrealismo. I tre vecchi in chiesa (Abruzzi, Scano, 1953), non sembrano altrettanti Nosferatu invitati a una messa nera? E le due “cariatidi” che paiono sostenere altrettante, autentiche cariatidi (Atene, 1953)? Tre oche olandesi, che “ciciarano” e camminano su una strada che non finisce mai, Babe appoggiato alla staccionata in attesa del suo interlocutore, o i due cani che si fermano per osservarne altri due mentre copulano – imbarazzati o incuriositi, al pari dei guardoni di un’altra celebre foto (Brussels, 1932) – non rimandano al migliore Buñuel di Un chien andalou o (soprattutto le oche) alla scena finale de Il fascino discreto della borghesia?

E, infine – anche se la carrellata potrebbe continuare ancora a lungo – due montaggi pressoché cinematografici raccolti in un’unica immagine reale: una specie di Nuovo Cinema Paradiso in Valencia (Spagna, 1933) e la coppia languidamente abbandonata al sonno, su una carrozza ferroviaria di Romania (1975). Da non perdersi anche gli scatti che rimandano all’arte coeva, dalla frutta morandiana, all’uomo con la testa avvolta in una tenda (grazie all’illusione ottica) che sembra un autentico Magritte (Livorno, 1933), fino al ritratto impressionista – quasi pointilliste – di l’Ile de la cité.

Una mostra che è, soprattutto in queste giornate canicolari, un vero refrigerio per occhi, mente e corpo.

(consulenza artistica: Simona M. Frigerio)

La mostra continua:
Lucca Center of Contemporary Art
via della Fratta, 36 – Lucca
fino a domenica 3 novembre
orari: da martedì a domenica, dalle ore 10.00 alle ore 19.00
(chiuso il lunedì e giovedì 15 agosto)

Henri Cartier-Bresson. Photographer
a cura di Maurizio Vanni
con il patrocinio di: Regione Toscana, Provincia di Lucca, Comune di Lucca, Opera delle Mura, Assindustria Lucca, Camera di Commercio di Lucca, Confcommercio Lucca, Confesercenti Lucca e Confartigianato Lucca
con il contributo di Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, Fondazione Banca del Monte di Lucca e Gesam Gas
partner IT’s Tissue – The Italian Technology Experience e Fienilarte