emilianobogaIl ricordo di Emanuela Mugliarisi e dell’intera redazione di Persinsala, dedicato al giovane fotografo Emiliano Boga.

Ho conosciuto Emilano al corso di teatro.

L’ho conosciuto come una persona brillante e divertente, che aveva sempre la battuta pronta per distendere il clima nei momenti difficili, la parola adatta a far scoppiare tutti a ridere nelle giuste situazioni. Possedeva naturalmente i cosiddetti tempi comici e, alle prove, era sempre grande, anche quando arrivava impreparato – perché sapeva improvvisare in maniera geniale, grazie a una teatralità innata.

Era una di quelle presenze che regalano gioia con la loro presenza, ma che sanno anche lasciare una scia di buon umore quando se ne vanno – e, nonostante il dolore per la perdita, anche se Emiliano se n’è andato in quella terribile notte del 18 aprile, la sua luce di positività rimane e rimarrà in tutti noi che lo abbiamo salutato per l’ultima volta sabato.

Appena si è sparsa la notizia, la sua bacheca è diventata un muro di affetto, di parole dolorose ma anche di video, frasi, link divertenti – che ne ricordavano la solarità e la vena comica. La sua pagina si è riempita di tante sue foto: emozionanti, sconvolgenti, semplicemente belle. Perché Emiliano, oltre a essere uomo di teatro sul palco, era soprattutto fotografo di scena. Ma non solo questo, dato che era capace di fotografare volti che raccontavano intere storie; colori, luci e ombre; anime di passaggio nella realtà metropolitana; luoghi che svelavano nuove sfumature grazie al suo punto di vista.

Una volta, quando un’amica gli chiese: «Ma Boga, che scuola hai fatto per fotografare così bene?», lui rispose semplicemente: «La mia». Perché Emiliano era così: diretto, semplice e autentico in ogni sua esternazione; spesso testa calda o testardo, ma sempre con un modo di fare che non poteva non strapparti il sorriso e costringerti a perdonargli tutto.

Al funerale eravamo tantissimi, così tanti che non si riusciva a entrare in chiesa. Seppure dolorosa, una situazione come quella fa pensare a qualcosa di bello: a quante persone lo amassero – e non poteva essere diversamente: “Boga, sei stato un grande nella vita. E anche sabato, la tua ultima comparsa in scena è stata un successo”.

Qui di seguito ripubblichiamo l’intervista che ho avuto la fortuna di fargli sul suo ultimo lavoro in Burkina Faso – insieme a Livia Grossi. Non dimenticherò mai l’entusiasmo con cui ci disse – a noi compagni del corso di teatro – che avrebbero esposto le sue foto. Non dimenticherò mai che la sua nuova sfida sarebbe stata quella di fotografare il buio: paradosso per la fotografia, che ha bisogno della luce; eppure fotografare quello che rimane in sospeso, in una dimensione liminale, è molto più accattivante. Ora le ombre e le luci le conoscerai da vicino, ma sappi che a noi lasci solo tanta luce. Ciao Emiliano.

Le sue foto su: http://www.emilianoboga.it

Artista poliedrico, Emiliano Boga frequenta la fotografia nelle sue sfaccettature più feconde: street photography – recentemente è uscito il suo libro Streetography in front of me – reportage foto-giornalistici ma, soprattutto, foto di scena nei teatri – ambiente che frequenta anche come attore.
Dall’unione delle ultime due passioni nasce Ricchi di cosa? Poveri di cosa? reportage in primis che, partendo dalla curiosità per il lavoro teatrale svolto da alcuni amici in Burkina Faso, genera due esperienze strettamente unite ed entrambe ospitate al Teatro della Cooperativa di Milano: una mostra ricca di immagini intense – fino a martedì 9 aprile – e un reading con la voce di Livia Grossi – in scena, da martedì 26 a venerdì 29 marzo.

Com’è nato il progetto di reading-mostra-spettacolo sul suo viaggio in Burkina Faso?

Emiliano Boga: «Innanzi tutto, l’occasione per il viaggio in Burkina Faso è nata, come spesso accade, quasi per caso. Sono sempre stato affascinato da luoghi “strani”, che si sentono nominare per qualche ragione ma che, in fondo, non si conoscono. Chiacchierando, una sera dell’estate 2010, con Livia Grossi, davanti a un amaro ghiacciato le è venuto in mente di fare un reportage sul teatro in Burkina Faso, prendendo spunto dal lavoro di un amico comune, Luca Fusi – un attore italiano che da cinque anni vive e lavora in quel Paese come direttore pedagogico nella prima scuola di teatro del Burkina Faso. Davanti ai miei occhi sono passate immediatamente, come in un film, tante immagini africane, talmente intense da riuscire quasi a sentirne l’odore. A quel punto l’unica cosa da fare era evitare di ignorare le forti emozioni e pulsioni provate – nate tanto repentinamente quanto inaspettatamente. Credo di averci riflettuto un paio di giorni – non di più. Già a dicembre del 2010 eravamo in viaggio. Così è nato questo spettacolo, nel quale le mie immagini e i video intensificano quello che le parole di Livia raccontano: un Paese dove molti migranti ritornano perché in Italia non ci sono più possibilità; un Paese dove il teatro rivive della sua energia e del suo valore primordiale, assumendo il senso di un’urgenza, di una necessità».

Cosa l’ha colpita di questo viaggio, della gente che ha incontrato, e che cosa le preme comunicare attraverso la mostra?

E.B: «Il viaggio è stato incredibile, emozionante e permeante. Una realtà totalmente diversa, che poteva far paura, all’inizio, ma solo per la mancanza di allenamento nella comprensione di ciò che non si conosce o che è molto diverso dal “già visto”. Occhi, facce, respiri, sorrisi e una serenità inspiegabile nel cuore delle persone incontrate, prima a Ouagadougou – la capitale – e poi in diverse altre città e nei villaggi dove siamo passati. Il ritorno è stato più traumatico della partenza perché – entrare in un universo così ricco e denso per poi uscirne e tornare al di qua dei cosiddetti “parapetti della vecchia Europa”, dai quali spesso amiamo guardare comodamente il mondo – è quantomeno sconvolgente. In viaggio spesso si rimescolano motivazioni, significati, priorità e necessità: sono tornato ricco di esperienze, di sguardi calorosi. Come prima esperienza di reportage – nonché mio primo viaggio nell’Africa Sub-sahariana – è stata estremamente positiva: mi ha dato la possibilità di capire che la mia passione per la fotografia di scena si poteva sposare tranquillamente con questo genere di fotografia. Infatti, appena ho potuto, ho bissato l’esperienza: l’estate scorsa, in Senegal, con un reportage sui movimenti migratori di senegalesi e italiani – da e per quel Paese e da e per l’Italia – e sulla scena musicale e teatrale senegalese. Ovviamente, dopo il rientro, passato un periodo di decantazione emotiva, è arrivata molto forte l’urgenza di una mostra fotografica, per esternare – attraverso il linguaggio che mi è proprio – quanto ho provato e visto e per comunicare con il resto del mondo. In quanto all’allestimento ho fatto scelte precise. Ho prediletto volti sorridenti, azioni teatrali, luoghi meravigliosi – gli occhi, quindi. Ho scelto di far vedere quell’Africa che molti ignorano, quella fatta di persone serene, che seppure si confrontano con mille difficoltà, anche durissime, sono comunque persone “ricche”. Non a caso, la riflessione che spesso abbiamo fatto – Livia e io – in Burkina Faso era appunto: “Ma queste persone sono ricche di cosa e povere di cosa?” e, da qui, anche il titolo del reportage e dell’esposizione».

Altri progetti futuri o imminenti?

E.B: «Nel futuro vedo sempre e comunque il teatro, che ormai fa parte della mia vita professionale e non. Vedo un altro viaggio africano ma, in particolare, al momento, sto lavorando su un fattore che mi affascina: il buio. Il buio, in fotografia, è quasi un controsenso, una contraddizione in termini, eppure all’interno del buio esiste un altro universo, con una sua luce personale, quasi un negativo del nostro. Un mondo dove fermare emozioni messe al sicuro dall’oscurità, dove creare legami ciechi basati su connessioni mentali ed emozionali, quasi pure, al netto dello sguardo diretto che, alle volte, inficia e fuorvia. Ma sopra a ogni cosa aspetto sempre che il futuro mi sorprenda con nuove emozioni, scoperte e possibilità».