Cronache dell’immaginario

Il tema della rappresentazione della guerra attraversa in vario modo la storia dell’arte, ma più in generale la storia della cultura visiva fin dalle origini; se in epoca moderna, in particolar modo all’indomani delle due guerre mondiali, l’immaginario non può non connettere la guerra all’orrore, e perciò alla morte e alla distruzione insensati, bisogna pensare che nella cultura classica e fino all’Ottocento raramente la guerra veniva ripudiata in generale, ma veniva sempre compresa in base alle giustificazioni delle parti in causa, alla legittimità del conflitto, ai valori incarnati dai combattenti.

La guerra era infatti riconosciuta come una necessità storica, e l’idea  – se vogliamo definirla “pacifista” – di vedere nella guerra sempre e comunque una stortura a prescindere dalle ragioni, appartiene a un discorso peculiarmente moderno: pur diffondendosi nel Novecento, i prodromi di questo approccio concettuale alla guerra si trovano già nell’Ottocento, e non è casuale che si tratti del secolo della Rivoluzione industriale e delle campagne napoleoniche, ma anche della nascita della fotografia e della letteratura di Tolstoj. In questo quadro, si pone l’opera di un maestro dell’arte spagnola come Francisco Goya.
Goya, maestro dell’arte moderna, nel XIX secolo ha spesso trattato il tema della guerra e degli orrori che essa produce, testimone lui stesso delle ingiustizie e delle sofferenze prodotte dalla guerra franco-spagnola, dove la brutalità e la violenza inquadrano la guerra già da subito in senso moderno, anticipando di qualche decennio l’avvento della tecnica fotografica che avrebbe rivoluzionato la storia delle immagini e di conseguenza il rapporto tra sentimento popolare e guerra.

Susan Sontag, nel saggio dal titolo Davanti al dolore degli altri insiste sulla specificità propria dell’immagine fotografica, immagine eloquente per definizione perché ontologicamente segnata da quella realtà che i teorici della simulacralità troppo frettolosamente sono disposti a negare, negando così anche la realtà di quella sofferenza testimoniata dalle fotografie di guerra. L’immagine travalica la parola, dal momento che spesso la traduzione linguistica orienta il messaggio in termini moralistici e ideologici, mentre la fotografia è ben più adeguata a evitare l’estetizzazione del dolore e della guerra. Se essa comunica il dolore autentico delle vittime della guerra, l’accusa è rivolta alla guerra in sé a prescindere dalle parti in causa e dalle ragioni delle due fazioni, rivolgendosi alle quali saremmo sempre inclini al relativismo partigiano; afferma la Sontag: “Le fotografie sono uno strumento per rendere ‘reali’ (o ‘più reali’) situazioni che i privilegiati, o quanti semplicemente non corrono alcun pericolo, preferirebbero forse ignorare”.

            Il primo che ha rappresentato la sensibilità moderna nei confronti della guerra, ovvero il rifiuto della guerra tout court al di là di ogni retorica nazionalistica, è stato proprio Goya con la serie di acqueforti dal titolo I disastri della guerra, realizzate tra il 1810 e il 1820 ma pubblicate e diffuse solo 35 anni dopo la morte dell’artista, nel 1863. In queste acqueforti, la guerra ha smesso di essere uno spettacolo o una celebrazione di valori istituzionali, religiosi o politici; come afferma la Sontag, le acqueforti non sono una narrazione, ma intendono piuttosto imprimere uno choc visivo ed emotivo all’osservatore, per questo esse si propongono come “nuovo standard di sensibilità davanti al dolore”. È indubbio che l’atto di accusa di Goya fosse orientato in particolar modo contro la barbarie perpetrata dalle truppe napoleoniche nei confronti dei ribelli spagnoli (pensiamo al celebre 3 maggio 1808), ma ciò che colpisce in questa serie di acqueforti è l’attenzione di Goya a voler mostrare come spesso le immagini intendano scuotere l’animo dello spettatore a prescindere dalle parti chiamate in causa: i responsabili degli orrori e dei disastri spesso si confondono, le vittime diventano carnefici e viceversa, o meglio ciò che compare è la messa in scena drammatica di un inferno dove tutti allo stesso modo sono vittime dello stesso orrore, ovvero vittime della guerra.

L’elemento particolarmente interessante è rappresentato dalla presenza delle didascalie, che infatti rinunciano a orientare l’intelletto e la sensibilità dell’osservatore per spiegare le immagini e prendere posizione, piuttosto suonano come delle invocazioni e delle esclamazioni di dolore, degli interrogativi senza risposta (pensiamo a Con o senza ragione, che conferma come la guerra sia atroce al di là delle ragioni) altre volte sembrano voler sopperire alla mancanza di principio testimoniale che la fotografia invece ha connaturato per la sua stessa tecnica (quando Goya scrive: Io lo vidi, è come se annunciasse la fotografia, perché tale didascalia ci dice: “questa è una mia opera, ma non crediate che sia frutto dell’immaginazione, perché è accaduto realmente”). Le acqueforti ci ossessionano, non intendono spiegare o orientare ideologicamente il fruitore, per questo alle opere di Goya è adeguato quanto afferma la Sontag: “Una narrazione può farci capire. Le fotografie fanno qualcos’altro: ci ossessionano”.

L’immagine che ossessiona si impone all’immaginario prima ancora di qualsiasi argomentazione razionale, sempre in grado (attraverso lo sviluppo di una determinata narrazione) di comprendere l’orrore e di orientare la nostra valutazione morale e la nostra coscienza; l’immagine fotografica del dolore altrui, e prima di essa le acqueforti di Goya, sono strumenti di condivisione del dolore, che ci scuotono agendo sul nostro apparato nervoso prima che sul nostro cervello. Il pathos di queste immagini perciò precede la riconoscibilità effettiva dei personaggi rappresentati, l’analisi storico-sociale di quegli orrori, le ragioni più o meno nobili di tali nefandezze: se questo può essere definito un discorso moderno, e Goya ne rappresenta in qualche maniera l’origine, non bisogna credere ingenuamente che il progresso abbia determinato un’emancipazione dell’anima e una effettiva comprensione del dolore altrui, chiunque esso sia. Le immagini continuano a tormentarci ancora oggi, ma questo non ci vieta affatto di continuare a farci la guerra, in maniera persino più disumana di un tempo: alle baionette e alle fucilazioni si sono sostituiti i droni e i caccia-bombardieri, che non a caso rendono l’immagine dell’orrore quanto più asettica possibile, lontana, censurata.
Solo quando le documentazioni fotografiche ci mettono sotto gli occhi i corpi smembrati e assassinati dalle nuove tecnologie, allora ancora una volta la nostra anima viene scossa e interpellata, e solo allora torniamo a soffrire della sofferenza dell’altro.