I quarantanove gradini

La nuova mostra veneziana di Anselm Kiefer, che prende spunto da una frase di Andrea Emo, è un’esplosione di storia e cosmogonia sovrapposte.

«Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce». È da una frase dell’indefinibile metafisico Andrea Emo che si sviluppa la nuova mostra di Anselm Kiefer, tra i più apprezzati esponenti dell’arte contemporanea tedesca, allestita tra le sale del Palazzo Ducale di Venezia. Gigantesche, granitiche, di una rigidezza ancestrale, una decina di «maxi-tele» si stagliano, a cavallo tra pittura, ready-made e scultura, raggiungendo anche i dieci metri d’altezza, secondo un disegno complessivo che ha l’ambizione dichiarata di voler tracciare nientemeno che una «cosmogonia esistenziale».

Non si tratta di arte astratta però. Non in senso puro perlomeno, non in senso proprio. «Secondo Kiefer», premettono le note della curatrice Jeanne Sirén, «la vita e l’arte vivono una nuova nascita dalle rovine, dai resti di ciò che è stato». Conseguentemente, ed heideggerianamente, un pensiero costante nelle opere di Kiefer è o dovrebbe essere «la simbiosi tra essere e tempo». E quindi queste macrotele non hanno titoli, però hanno argomenti.

C’è innanzitutto una tela proemiale, tenuta separata dalle altre, nella stanza d’accesso alla sala principale – tela che ripete e visualizza a modo suo la frase di Eno che dà il titolo alla mostra. Segue poi una grandiosa e putrefatta visione paesaggistica nel centro della quale si staglia una scala: è la proverbiale e salvifica Scala di Giacobbe, ci informano le note della curatrice, i famosi quarantanove gradini a cui Walter Benjamin e Roberto Calasso tanto s’appellavano. Per il resto, le altre gigantesche tele sembrano alludere a diverse vicende più o meno storico-leggendarie della città, fino a costituire un ideale Ciclo di Venezia che traccia per sommi capi l’ascesa, l’apice della gloria e la caduta della Serenissima. La visione finale – l’ultima tela – è del tutto inesprimibile, non dà possibilità di parafrasi. Che, per rievocare Turner, sia la Venezia dopo il diluvio, già sommersa dalle acque? Non a tutto è dato rispondere.

Conseguenziale rilevare che Kiefer, da sempre attento ai luoghi – e tanto ai luoghi in cui sono esposte le sue opere, quanto ai luoghi in esse ritratti, due piani che a volte si confondono – abbia voluto omaggiare Venezia. Ma l’omaggio qui è anche invasione, l’omaggio, nel caso di Kiefer, è anche profanazione. Come accade sempre quando si ospitano opere di un artista contemporaneo in uno spazio classico, già abitato da un canone tradizionale – l’anno scorso il caso eclatante fu Damien Hirst alla Galleria Borghese di Roma – il contratto tra gli antichi quadri qui custoditi e le nuove opere di Kiefer si fa stridente, nervoso, provocante. Quadri fin troppo classici, incastonati in sfarzosi medaglioni, ci restano a guardare dall’alto mentre noi, costretti al pavimento, ci aggiriamo per la sala principale del palazzo scrutando le indefinibili, ciclopiche opere di Kiefer. Arte delle rovine o rovina dell’arte? I richiami ora ad Augé ora a Blanchot ora a tutta la grandiosa tradizione novecentesca della Frammentarietà si sprecano. Se Nietzsche distingueva tra storia monumentale, storia antiquaria e storia critica, la base d’appoggio di Kiefer si colloca in un irreplicabile punto tra la prima e la terza esigenze. Di certo non c’è cronaca, forse c’è tragos.

Cosmogonia e grande storia – sono questi i due asintoti della mostra. Non deve essere un caso se negli stessi mesi in cui al Palazzo Ducale è allestita Questi scritti di Kiefer sia programmata, in uno spazio alla Giudecca, anche la 20th Action Painting, la mostra postuma dell’austriaco Hermann Nitsch. Con tecniche e colori profondamente diversi, ma con impulsi ugualmente escatologici-palingenetici, in una Venezia che ancora non si è lasciata del tutto alle spalle la pandemia, Nitsch e Kiefer sembrano individuare interrogativi comuni sulla fine – o sull’origine? – della civiltà, dell’arte, del cosmo stesso. Ma se in Nitsch il sangue genera e ricopre ogni cosa, in una riflessione anche teorico-concettuale sul sacrificio e sull’espirazione, sul Citerone e sul Calvario, in Kiefer è l’elemento figurativo ad essere del tutto autonomo e preponderante: al netto di ogni significazione, queste vertiginose tele dai colori innaturali e nerastre ci fanno ripiombare, non meno di Nitsch, di fronte ad espressioni d’arte ancora capaci di evocare il monumentale, l’assoluto, l’estremo – in una parola, il tragico.

La mostra continua
Palazzo Ducale
Piazza San Marco 1
26 marzo – 29 ottobre 2022
dalle 9:00 alle 18:00

Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce
di Anselm Kiefer
a cura di Gabriella Belli e Janne Sirén