Demetz/Museo Archeologico. Un dialogo possibile

A Napoli va in scena un interessante esperimento (ormai pratica consolidata nel resto d’Europa): il confronto tra arte contemporanea e arte classica.

L’interesse per la figura umana di Aron Demetz, artista della Val Gardena, è – come afferma lui stesso, nell’intervista che ci ha concesso – un mezzo per andare in profondità; una profondità anche psicologica ed emozionale che l’astrattismo non è mai riuscito a dargli e che, al contrario, il corpo umano, nella restituzione emotiva e, ultimamente, nello studio delle superfici attraverso la resa di materiali diversi, gli regala, portandolo sempre più a interrogarsi sulle possibilità espressive di un oggetto, come il corpo, all’apparenza senza più mistero e, al contrario, in grado di perturbare e dialogare con l’osservatore.

Da questa interessante premessa poetica nasce il dialogo tra le opere di Demetz e i preziosi reperti conservati al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Al piano terra, il Gruppo con il supplizio di Dirce (Toro Farnese) è, nella sua possenza materica e levigatezza estetica, nel biancore opalescente del suo monoblocco marmoreo, in opposizione/dialogo con Memoridermata (legno di tiglio, 2014), un’opera di Dematz che, nei colori caldi del legno e nella lavorazione della materia, scarnifica la figura umana che, laddove nella copia romana raggiunge il massimo dell’opulenza, qui dimostra tutta la propria fragilità; mentre, alla patinata lucidità delle forme plastiche, contrappone la crudezza, tutta umana, di un materiale, il legno, che esaltandosi nelle venature sue proprie espone, contemporaneamente, ciò che sta sotto la pelle, ciò che pulsa e vibra, appena sbozzato come in una statua tardo-michelangiolesca. È il soffio vitale (che rimanda, inconsapevolmente, alle figure del gabinetto anatomico, esposte sempre a Napoli nella Cappella Sansevero, celebre per il Cristo velato).
A livello emozionale, alla pagina drammatica del supplizio, all’atrocità dell’atto che vibra persino nei chiaroscuri dei drappeggi di Antiope, Demetz contrappone il balsamo di una calma ieratica, di figure che salva «prima della loro definitiva scomparsa, ponendole ancora erette» – quasi a rimandare a un’umanità che, nonostante tragedie, guerre ed efferatezze, conserva la propria dignità, la forza di andare avanti.
Tra le due opere, ognuna a suo modo monumentali, l’Ercole in riposo (o Farnese), quasi a proteggere questa fragilità umana, in grado – a livello materico, grazie alle strie tendenti all’ocra – di rimandare a quel dialogo tra antico e contemporaneo, la cui importanza è sottolineata anche dal direttore del Museo Archeologico, Paolo Giulierini, che aggiunge – in uno scambio di battute – che le opere artistiche, come i musei, sono soggette a stratificazioni, a contaminazioni linguistiche e poetiche. In un universo/mondo sempre più fluido, l’erezione di steccati ideologici, come la mania classificatoria o l’incasellare in categorie asfittiche, è ormai una pratica – aggiungeremmo noi – sterile.

La visita all’ammazzato rimane un must del Museo con il meraviglioso mosaico proveniente dalla pavimentazione della Villa del Fauno, in grado di restituire i chiaroscuri pittorici con un minuzioso lavoro compositivo delle piccolissime tessere, che raggiunge i livelli della cesellatura orafa in piccole opere (si vedano a tal proposito, Scena di Commedia: la consultazione della fattucchiera, e Scena di commedia: musici ambulanti, entrambe di Dioscuride di Samo, provenienti da Pompei), oltre al Ritratto femminile, sempre pompeiano, e al Combattimento di galli della Collezione Santangelo.

Al secondo piano del Museo Nazionale ecco nuovamente instaurarsi la forma dialogica, ma questa volta tra arti, dalla scultura monumentale romana, passando per l’arte del mosaico, si arriva agli affreschi dell’Ekklesiasterion, tra i quali risaltano i paesaggi fantastici con architetture semidiroccate, i ruderi sparsi tra acque e rocce al confine tra mitologico ed esotico (in questo senso, mirabile, il Paesaggio roccioso con tempietti, statua, pescatori e ibis, dove pennellate brevi rimandano forse a oggetti misterici appesi alle colonne). Nelle sale, altri esempi sorprendenti di paesaggi e nature morte: i primi, sorprendenti per la profondità dei blu e il ritratto idilliaco di una popolazione che si adagia languidamente in una vita bucolicamente irreale (vedasi il Frammento di un’edicola con vignetta di paesaggio fluviale proveniente da Pompei); e le seconde per quella ieraticità e scelta coloristica del tono su tono che sembra talmente morandiana, talmente contemporanea. E ancora la cosiddetta Saffo, un “tipo” con stilo e dittico che, nell’espressione concentrata e nello sguardo intelligente, si apparenta alla ritrattistica, ma nella perfezione del “modello” e nella posa calcolata ha un che di pagina patinata dei nostri giorni. Si nota, inoltre, una certa sensibilità prospettica e, comunque, un’attenzione per la visione appartenente all’occhio, nel trittico della Casa di Gavio Rufo, oltre che nelle tholoi e nelle architetture che torneranno quali temi ricorrenti dal Rinascimento in avanti. E infine, fiorisce il manierismo scenografico della Casa di Meleagro, dove la mano dell’artista si fa pesantemente decorativa inserendo le pitture preesistenti in decorazioni di stucco policromo, creando una cornice di fatto e una stratificazione di generi e materiali insieme fortemente architettonica e audacemente novecentesca (basti pensare alle diatribe del secolo scorso proprio sull’uso della cornice, la spazialità della tela, la scelta del materico).

Rimandi, ritorni: la mente umana ha a disposizione un ristretto numero di note da risuonare intorno a sé, una ristretta gamma di lettere per creare i propri poemi, e ben poche materie in grado di modellarsi per aderire a un’emozione o a un concetto. Eppure le forme si moltiplicano, rispecchiandosi, e visitare un Museo può essere un’autentica scoperta, emozionale e intellettuale.

La mostra continua:
Museo Archeologico Nazionale di Napoli
Piazza Museo, 19 – Napoli
Dal 07 Giugno 2018 al 29 Luglio 2018

Autarkia | Aron Demetz
“La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri” (Gustav Mahler)
mostra a cura di Alessandro Romanini
fino a domenica 29 luglio (stessi orari del Museo)

Foto di Luciano Uggè