Lo sguardo rivolto alle voragini dello spazio digitale

Il MLAC della Sapienza di Roma ha accolto le opere di Chiara Passa, in una mostra capace di rilanciare gli interrogativi non solo sul rapporto tra arte e tecnologia elettronica, ma soprattutto sulla natura dello spazio e l’ontologia degli oggetti.

La diffusione radicale nel settore artistico dell’adozione di dispositivi e tecnologie elettroniche è un fenomeno ormai pluridecennale: se ancora oggi c’è chi si stupisce dell’innesto in ambito espressivo dei linguaggi informatici di programmazione, o di strumentazioni hi-tech in ambienti espositivi, o ancora di tecniche digitali di manipolazione o generazione di immagini, questo in realtà attesta un chiaro ritardo da parte degli analisti e dei critici anche quando tale scenario viene esaltato e promosso come la “nuova frontiera” dell’arte contemporanea. In altre parole, tanto i detrattori quanto gli infatuati della cosiddetta “new media art”, studiosi o artisti che siano, spesso corrono il rischio di assumere una prospettiva datata, giustificabile forse fino a quindici anni fa: la condanna o l’esaltazione della tecnologia nei termini autoreferenziali di “messa in esibizione” delle potenzialità dei nuovi media.

Già la definizione di “new media art” appare in questi termini ambigua e pretestuosa: quali sono i nuovi media? E nuovi rispetto a cosa? Sono nuovi, questi media, rispetto a quelli degli anni Novanta? E rispetto a quelli dei primi anni Duemila? D’altronde, dall’altro lato della palizzata, un errore decisivo sarebbe quello di trascurare l’apporto che l’elettronica ha offerto e continua a offrire alla sperimentazione artistica degli ultimi anni: si tratterebbe di soffrire di quella che Marshall McLuhan definiva “sindrome dello specchietto retrovisore”, ovvero avere l’ingenua convinzione di poter “far finta” che le trasformazioni socio-antropologiche determinate dall’avvento dei sempre nuovi media possano essere ignorate, trascurate e rifiutate. L’artista contemporaneo (chiamatelo se volete “videoartista” o “new media artist” o semplicemente, appunto, artista) si trova così a doversi districare tra Scilla e Cariddi in questi termini: da un lato non può e non deve voltare le spalle alla contemporaneità mediale, dall’altro deve tener fermo il principio di specificità che l’arte continua e deve continuare ad avere rispetto ad altre decisive tendenze della cultura dei nostri tempi (dalla dimensione videoludica, a quella propriamente comunicazionale, all’entertainment in senso più generico). Sono pochi quelli che riescono a compiere questo ardito passaggio: sperimentare coi nuovi linguaggi senza immergersi totalmente nello spazio virtuale, continuando in termini intermediali a far comunicare spazi concreti e spazi digitali, ambienti ispirati a modalità classiche di creazione artistica che però superano se stessi instaurando nuovi circuiti di senso, nuove idee di spazio, di architettura e di sensibilità.

Ebbene, è tutto questo che l’arte di Chiara Passa propone fin dagli anni Novanta, in un percorso di indagine e sperimentazione graduale che invece di ripetersi nel corso degli anni ha spostato l’orizzonte di pari passo con l’evoluzione dei software e dell’hardware. La mostra Object Oriented Space andata in scena presso il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università Sapienza di Roma, curata da Elena Giulia Rossi e Antonello Tolve, dimostra come la migliore arte digitale non possa esaurirsi nel mero videotape ma debba necessariamente mettere in campo il problema dell’oggettualità.

Infatti, gli spazi del Museo Laboratorio si prestano ottimamente all’allestimento, perché a ogni passo si mette in evidenza la necessaria corrispondenza e osmosi di spazio fisico, classico, concreto da un lato, e spazio virtuale, astratto, cibernetico dall’altro. Non una contrapposizione, ma un’interazione che rilancia il dibattito filosofico e teorico relativo alle nuove ontologie e alle teorizzazioni di Marcos Novak in merito agli spazi fluidi e all’architettura liquida: la modellazione 3D, e gli oggetti virtuali, rivendicano pari dignità rispetto alle componenti dell’opera installativa. Le opere in mostra al MLAC si presentano nella forma di “accessi” a dimensioni ulteriori dello spazio, che non negano e non sovrastano la materialità ma ne amplificano il senso e le possibilità: le pareti in Dimensioning III non sono solo un varco, ma la piena compenetrazione di due dimensioni ontologiche che rivendicano entrambe di venire considerate. In Black Square, è il corpo del fruitore a sentirsi nuovamente protagonista, perché “costretto” a piegarsi e spostarsi per indossare i visori. Passa ci dimostra come corpo, muro, ma anche scultura (pensiamo a Fourth Dimension Banner) sono concetti non affatto desueti e obsoleti (come molti ingenui e fanatici sostenitori del virtuale sostengono), ma sicuramente necessitano di un rinnovamento a partire proprio dalle opportunità che il digitale offre. Per queste regioni, le realizzazioni dinamiche digitali realizzate da Passa non si esauriscono mai a banali didascalismi narrativi o a giochi autocompiacenti: sono spazi immersivi astratti, geometrici, dove a volte compaiono figure biomorfiche non meglio identificabili, o elementi ortogonali in continuo movimento. Spesso si tratta di dimensioni inquietanti, immerse nell’oscurità o nell’acidità di cromatismi inconcilianti: ma d’altronde, è proprio qui che la ricerca di Passa si dimostra ancora una volta ben radicata tanto nella contemporaneità quanto nella modernità del secolo scorso, perché l’arte quando è tale non si limita a intrattenere, ma inquieta, interroga, pone dei dubbi più che dare risposte. In altri termini, se cercate simpatici intrattenimenti multimediali, opere interattive fini a se stesse che a ogni secondo ribadiscono in maniera supponente e fastidiosa al fruitore “guarda quanto sono bella” o “guarda quanto sono originale” (risultando spesso patetiche perché si tratta delle stesse cose da vent’anni a questa parte), allora l’arte di Passa non fa per voi. Se invece intendete avvicinarvi alla complessità non solo pratica ma anche teorico-concettuale della media art senza facili appagamenti sensoriali, allora avete perso una bella occasione per scoprire una delle più importanti protagoniste della scena italiana e non solo, ma siamo certi che non mancheranno nuove occasioni in futuro.

La mostra si è conclusa:
MLAC (Museo Laboratorio di Arte Contemporanea)
Università Sapienza di Roma, Palazzo del Rettorato
Piazzale Aldo Moro, 5 – Roma
dal 19 maggio al 18 giugno 2019
lunedì – sabato dalle 15.00 alle 19.00