Ritratti d’autore

Chi si occupa di arte, tanto da una prospettiva creativa e pratica quanto da quella più propriamente critica e teorica, sa benissimo che i rinnovamenti tecnologici e mediali sono alla base della incessante ridefinizione dell’immaginario, nonché della trasformazione perpetua del concetto stesso di arte. L’avvento e la diffusione massiva dei nuovi dispositivi prima elettronici, poi digitali, negli ultimi decenni hanno sconvolto l’universo dell’arte costringendolo a ripensare nel profondo modi, categorie, pratiche. D’altronde, non è proprio dell’arte contemporanea lo “sconvolgimento” continuo?

Pensiamo alla Computer Art e alla Net Art: da un lato ci sono artisti e autori che hanno sfruttato l’ausilio dei nuovi mezzi a disposizione per incrementare la capacità di creazione di immagini oppure per godere dell’indubitabile capacità di diffusione della propria produzione che la Rete offre. Dall’altro, ci sono invece artisti che hanno rinunciato a questa dimensione “esterna”, e hanno preferito “immergersi” nel nuovo orizzonte, per fare del nuovo medium uno strumento creativo, originale, espressivo, capace di porre interrogativi e di sperimentare a largo raggio senza restare vincolati alle prevedibili seduzioni dell’ “effetto speciale”.

Chiara Passa, digital artist e computer artist dagli anni 90, appartiene in tutto a questa seconda categoria: è finito il tempo di “stupirsi” ingenuamente di ciò che è capace di fare il calcolatore, ora è il momento di “fare”. E il fare dell’artista non deve appagare le aspettative del fruitore: deve invece spaesare lo spettatore, promettergli qualcosa e toglierglielo allo stesso tempo, condurlo su una strada, farlo affacciare sulla voragine per poi strattonarlo ancora una volta. Se un limite molto diffuso di tanta videoarte contemporanea, compresa l’arte digitale, è quello di farsi tautologicamente esaltazione delle capacità del medium ed esercizio di stile autoappagante, l’opera di Passa si pone su tutt’altro piano, grazie alla sua capacità di switchare agevolmente tra mezzi diversi, dalla Realtà Virtuale all’animazione, dalla Net Art alla videoscultura… ogni volta l’artista dimostra di conoscere le specificità di questi diversi “linguaggi” (qualora si volesse definirli tali).

Stilllife Passa (1)

Nel percorso creativo di Passa c’è una coerenza profonda, che mette in rapporto tutti i tantissimi episodi della sua carriera internazionale: ci sono gli interrogativi relativi al rapporto tra uomo e tecnologia e quelli relativi al ruolo dell’interfaccia e dei dispostivi nella ridefinizione del sé, ci sono le domande e le indagini sulla condizione liminare dello spazio tra fisicità e virtualità, e perciò il ruolo dell’ambiente in rapporto alla nuova arte (apparentemente) smaterializzata, e persino la funzione della tradizione moderna dinanzi agli stravolgimenti del presente. In questa prospettiva, persino la concezione tipicamente moderna del medium come “estensione” delle facoltà umane ne risulta in parte compromessa: l’arte di Passa non dà risposte, non emancipa l’uomo, non abbatte i suoi limiti nell’ottica di un trionfalismo tecnologico e transumano, perché la sua è un’arte che amplifica ma confonde, potenzia ma inganna, incrementa i sensi ma allo stesso tempo ostacola la nostra coscienza, in una continua e imprevedibile ri-mediazione.

Passa, iniziamo dal tema dello spazio, al centro della sua mostra personale al MLAC (Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea) Object Oriented Space ma anche delle sue recenti opere in VR come Crying at the Gypsotheque e Still Life. Cos’è lo spazio nella sua arte, e come è mutata la sua idea di spazio a partire dal suo lavoro?

Chiara Passa: «Il tema dello spazio è sempre stato ben presente nella mia ricerca artistica attraverso varie declinazioni. Nel 1997 ho iniziato a sviluppare un profondo interesse per lo spazio architettonico e per come esso si trasforma all’interno del linguaggio informatico. Dalla creazione della serie Live architectures, opere della fine anni Novanta, tipo “CAVE” (Cave Automatic Virtual Environment), sono arrivata naturalmente alla realtà virtuale immersiva quando è stata commercializzata attraverso i primi visori VR. Il tema dello spazio evocato attraverso gli oggetti esposti nella mostra personale del 2019 al museo MLAC in realtà nasce già nel 2015 con diversi progetti site-specific e di software-art, esemplati da opere come Object Oriented Icons, che prevedevano la trasformazione ad hoc di spazi liminali. Al MLAC ho ideato un unico progetto espositivo composto da diversi lavori dove l’architettura del museo ha fatto da tramite per la percezione di un’unica realtà mista in cui lo spettatore poteva entrare e uscire continuamente. In mostra si potevano godere due spazi che si intrecciavano, si sovrapponevano e a tratti si separavano: quello progettato e realizzato da me e quello dell’architettura reale del Museo.
Il percorso espositivo prevedeva la partenza da Inside Geometry Double Language, un’installazione VR dove i Google Cardboard da indossare, installati sul muro della galleria, portavano lo spettatore ad intraprendere un viaggio in uno spazio liquido e multidimensionale, oltre il limite della parete.
Mentre un enorme murales interattivo di fronte estrofletteva la dimensione spaziale della parete attraverso varie animazioni fruibili con la realtà aumentata, di fianco al murales, le sculture VR in marmo e plexiglass moltiplicavano ulteriormente la sensazione di pluridimensionalità.
Lo spettatore intento a muoversi in questo super-spazio creava una relazione dimensionale unica collegando tutte le opere mentre l’ambiente vero del museo appariva come un luogo vivo e vibrante. Lo spazio del MLAC si era ormai trasformato in un: “Super-luogo”, termine che uso dalla fine degli anni Novanta per caratterizzare i luoghi dinamici e self-performativi delle mie opere multimediali.
Nelle opere VR più recenti come Still Life e Crying at the Gypsotheque, continuo sempre ad esplorare la dualità liminale tra luogo tangibile e virtuale, disegnando installazioni in realtà mista che collegano lo spazio fisico a quello liquido con l’obiettivo di generare bizzarre oscillazioni tra loro, provocando spesso nello spettatore la sensazione di rimanere sospeso».

La seconda domanda è vicina alla prima: una parte importante della sua produzione è basata sul rapporto con l’ambiente, col territorio circostante, col contesto urbano o naturalistico. Si può dire che le sue opere intendono mettere in rapporto (o in “tensione”) Land Art e Digital Art?

C. P.: «La realtà virtuale ha significato per me anche entrare in contatto con il paesaggio in maniera concreta, creando opere site-specific come ad esempio Earth Spiral, un’installazione VR costituita da venti Google Cardboard e relativi smartphone che rivelavano venti diverse animazioni immersive da scorgere sottoterra dove i visori 3D erano stati incastrati. Le animazioni a 360° mostravano una natura ciclica e trasformata attraverso la manipolazione digitale di mappe appositamente selezionate da Google Earth. Le mappe animate erano costituite da super oggetti vaganti e micro/macro dimensioni in continua trasformazione che spesso mutavano davanti al fruitore in qualcosa di sempre diverso e inaspettato.

Chiara Passa 4 Rocciamorgia17
In Earth Spiral i visori 3D disegnavano in mezzo all’erba una figura a spirale totalmente partecipativa che trasformava la natura in un collegamento immaginario con il sottosuolo. Gli spettatori, infatti, connessi ai visori 3D, come in una sorta di rituale, si inchinavano alla natura mentre si inginocchiavano alla tecnologia che usavano per vedere in profondità, oltre la visione ontologica della natura stessa».

Oggi si fa un gran parlare di crypto-art e NFT. Che idea si è fatta lei, dal momento che è stata, in tempi non sospetti, una delle prime artiste italiane a occuparsi di Net Art e di gallerie d’arte virtuali sul web? Ricordiamo a tal proposito almeno due progetti come “ideasonair – bogging as an art project”, progetto sperimentale di blog-art – nato nel 2005 e durato otto anni – dedicato alla ridefinizione di “opera aperta” in ambiente digitale, e “Widget Art Gallery” del 2009, galleria d’arte virtuale dedicata a esposizioni digitali site-specific.

C. P.: «È evidente che al momento si sta generando una bolla intorno alla tecnologia NFT (Non Fungible Token). Le potenzialità dal punto di vista “artistico” sono relativamente interessanti ma, come in tutti gli ambiti, bisogna stare attenti alle truffe. Infatti, c’è già chi recupera (da siti come Pinterest, Instagram e Facebook) immagini di opere (animate e non ma ad una buona risoluzione) di artisti digitali per poi coniarle e venderle spacciandosi per l’artista in questione, visto che basta avere un portafoglio elettronico e un profilo online. La maggior parte dei collezionisti usa portafogli elettronici con Ethereum, ma pensare che il collezionismo d’arte digitale che già stenta da sempre, farà uso solo di moneta virtuale, mi sembra prematuro per vari motivi etici e logistici. A mio avviso la tecnologia NFT non è così tanto “decentrante” come ci stanno dicendo, anzi, sembra volere “ricentrare” una determinata economia basata sulle criptovalute, quindi sarei più favorevole a sistemi come PoS (Proof of Stake) su Ethereum2 che consumano un po’ meno elettricità.
Gli artisti (ne ho sentiti e letti vari negli ultimi due mesi che osservo il fenomeno) che attraverso NFT credono di commerciare liberamente le loro opere e di non avere più intermediari (per me ben vengano gli intermediari e i galleristi che ben lavorano) si illudono poiché dietro i maggiori siti NFT che vendono e comprano arte digitale ci sono proprio i soliti intermediari! Ma ciò è naturale e non ci vedo proprio nulla di sbagliato. Comprendo comunque e condivido parzialmente il mood positivo degli artisti che hanno scelto di vendere attraverso criptovaluta.

Dopo anni ed anni di lotta e stenti per vendere opere effimere attraverso le gallerie, oggi il fenomeno Criptoarte sta generando tra gli artisti la percezione di una sorta di liberazione e una consapevolezza comune che inducono a sentirsi parte di qualcosa organizzato meglio e più trasparente. D’altra parte, come artista che ha iniziato alla fine degli anni Novanta, non dimentico il duro lavoro protratto negli anni, di galleristi e artisti che hanno promosso e venduto arte digitale all’interno del sistema dell’arte. Paradossalmente, la struttura stessa dell’NFT sembra annullare l’eredità delle generazioni precedenti di artisti che hanno utilizzato il computer e internet per fare arte. Infatti, l’NFT privilegia implicitamente l’ideale di un’opera d’arte stabile, unitaria, “comprata in blocco” che contrasta evidentemente con le opere di Net art che sono per natura instabili e disseminate poiché effimere. Alla fine, l’NFT non è un mezzo o una transazione artistica, ma a mio avviso è una sorta di marchio finanziario per gli artisti. Davvero non si riesce ad inventare niente di meglio per vendere arte digitale? Sono fiduciosa che presto il sistema NFT migliorerà anche per il discorso relativo all’eccessivo consumo di energia. E se poi questo fosse l’unico modo di vendere arte effimera, ci adatteremo!
Tante volte – ben prima della Criptoarte – ho pensato di vendere le opere digitali del progetto di Net-art Ideasonair – Blogging as an open art project. Le ho vendute sotto forma di Widget interattivi, ed è stato come vendere opere di software-art accompagnate da certificato artistico di peculiarità. La Widget Art Gallery nasce con un intento un po’ diverso: non ho mai voluto vendere ma collezionare!».

Tutti gli artisti sono stati coinvolti nel ripensamento della propria attività nell’ultimo anno, a partire dall’emergenza pandemica del Covid. Immagino che per un’artista come lei che lavora col web e con gli spazi digitali da molto tempo prima, questa intensificazione delle produzioni e delle partecipazioni a eventi ed esposizioni “a distanza” non abbia rappresentato un trauma, per quanto come ricordato la prossimità ambientale e fisica è stato spesso un elemento della sua arte…come ha vissuto e sta vivendo questa fase, da un punto di vista creativo?

C. P.: «Sto vivendo questa pandemia come tempo di produzione, di lavoro, di studio e di progettualità. Mi sono adattata al periodo riconnettendomi alle pratiche creative ed espositive online senza alcun problema, ma con una coscienza completamente diversa dagli anni Novanta ad oggi. Con la coscienza di chi usa la rete non solo per fare arte, ma anche per potenziare il proprio modus operandi e costruire una nuova cultura delle relazioni.
La pandemia sta insegnando al mondo ed in particolare all’Europa che finalmente dobbiamo usare e bene tutti gli strumenti digitali in nostro possesso che certamente conoscevamo già, ma che stentavamo a adoperare per vari motivi culturali. La pandemia ha messo in crisi un ‘modello’ dimostrando che il nostro sistema non è abbastanza potente e quindi molto instabile. Dobbiamo imparare a potenziare i nostri network in tutti i campi. Ad esempio, in Italia sono circa la metà i musei e le istituzioni pubbliche che sfruttano a pieno le potenzialità della rete, per non parlare di quanti ancora non hanno un sito dedicato. Il mondo dell’arte oggi ha bisogno di ripensare le strategie di marketing connesse ad internet. In quest’anno di pandemia abbiamo osservato una corsa frenetica alla creazione di spazi espositivi online, tra aste, vendite private, salotti virtuali, ambienti interattivi, etc. Non dobbiamo però dimenticare che la Net art più di venti anni fa, aveva già tentato tutto ciò portando l’arte in un luogo ancora inesplorato come internet, che il sistema dell’arte fino a poco tempo fa aveva erroneamente ignorato, sottovalutandone le potenzialità in campo artistico».