La verità dello scarabocchio

Villa Medici ospita un evento culturale di prim’ordine, rimarchevole per la consolidata
collaborazione tra Francia e Italia, l’impianto dell’allestimento museale, le scelte tematiche,
confermandosi come uno spazio aperto alla sperimentazione e alla divulgazione di qualità.

Gribouillage/Scarabocchio. Da Leonardo da Vinci a Cy Twombly è una mostra-evento che si sviluppa in due esposizioni successive e complementari, una a Roma e l’altra nella capitale francese: la prima a Villa Medici sarà seguita dalla seconda ai Beaux-Arts, da ottobre a metà gennaio dell’anno prossimo. Con circa 300 opere originali che vanno dal Rinascimento all’epoca contemporanea, questa duplice esposizione intende mettere in luce uno degli aspetti più sconosciuti e meno controllati della pratica del disegno: il gribouillage, lo scarabocchio. In particolare, l’esposizione romana, visitabile sino a fine maggio, riesce ad attuare efficacemente questo proposito, proponendo accostamenti inediti tra le opere dei maestri della prima modernità (Leonardo da Vinci, Michelangelo, Pontormo, Tiziano, Bernini) e quelle di noti artisti moderni e contemporanei (Picasso, Dubuffet, Henri Michaux, Helen Levitt, Cy Twombly, Basquiat, Luigi Pericle), sapientemente suddivise in sei sezioni tematiche. La mostra a Villa Medici è accompagnata da una serie di conferenze e da proiezioni di film d’artista, provenienti dalle collezioni del Musée national d’art moderne – Centre Pompidou di Parigi. Tra coloro che sono già intervenuti, ricordiamo le encomiabili curatrici della mostra Francesca Alberti e Diane Bodart, nonché l’antropologo Tim Ingold (autore di un fortunato volume di recente pubblicato anche in Italia con il titolo Corrispondenze). I prossimi incontri saranno invece animati, tra gli altri, dallo storico della letteratura Vincent Debaene, da Anne Montfort-Tanguy e da Philippe-Alain Michaud, entrambi del Centre Pompidou.

Il solo modo per apprezzare la mostra è quello di andarla a vedere. Impossibile raccontarla in poche righe senza correre il rischio di ridimensionare l’impatto che la visita promette al pubblico. Ci limiteremo a esporre alcune cursorie riflessioni che auspicano di mantenerne intatta l’attrattiva e la ricchezza semantica. Il dizionario di lingua francese, Petit Robert, alla voce “gribouillage”, individua con una certa nettezza due significati del termine: “1. disegno confuso, informe; 2. scrittura informe, illeggibile”. La prima questione da affrontare, dunque, consiste nel determinare la collocazione del gribouillage tra il disegno e la pittura, quasi che il secondo fosse la forma organizzata del primo e la terza la sintesi compiuta di disegno e colore. Questo tema attraversa come un fil rouge tutta l’esposizione, anche se viene messo a fuoco soprattutto nelle sezioni dedicate al gioco del disegno (la seconda), all’infanzia dell’arte e ai fantocci (rispettivamente la quarta e la quinta). È possibile una pittura senza disegno? E scarabocchiare è già un modo di fare pittura? Nell’ordine della percezione le cose non hanno un contorno che le separi partes extra partes, come avevano intuito gli Impressionisti, anche se ciò non implica che si debba rinunciare alla linea nell’ambito della pittura. Come osserva Merleau-Ponty, sulla scia di Klee, “la linea non imita più il visibile, ma ‘rende visibile’, è lo schizzo tridimensionale di una genesi delle cose” (L’occhio e lo spirito). In altri termini, cosa fa di un tratto disordinato, imperfetto, o non pilotato da una precisa intenzione pittorica, un elemento degno di rientrare a pieno titolo nella sfera dell’arte? Cosa differenzia l’instabile scarabocchio di un bambino dagli schizzi di Cy Twombly, al punto da attribuire loro una specifica dignità estetica, per cui il primo merita di rimanere tra i ricordi gelosamente custoditi da un genitore e l’altro finisce in un museo? Quando ci si incammina su un terreno così scivoloso, è più facile porre le domande che dare le risposte. “Une ligne pour le plaisir d’être ligne, d’aller, ligne”, diceva Henri Michaux (Aventures de lignes, 1954): marcare un tratto su una pagina, incidere dei segni su una tela significa prendere parte all’avventurosa e continua gestazione del mondo. A partire da Klee o da Matisse – ma ciò è vero anche prima, basta saper vedere! – “una linea sogna. Fino ad ora non avevamo mai permesso ad una linea di sognare”. La questione della vivacità delle linee si intreccia con quella del gribouillage come espressione di un funzionamento primitivo o infantile della mente, affrontato in maniera specifica nella seconda e nella sesta sezione, quella dedicata al richiamo del muro: mentre la razionalità civilizzata e adulta non può fare a meno di adottare la relazione di causa ed effetto per ordinare i fatti, la mentalità primitiva si conforma al principio della “magia simpatica”, per cui la realtà appare animata da potenze invisibili e le immagini non rappresentano il modello, ma lo sono.

Come aveva compreso l’antropologo Lévy-Bruhl, agli inizi del secolo scorso, si tratta di una “credenza attiva” nei poteri mistici degli oggetti e delle loro rappresentazioni, non di una semplice finzione che le cose stiano così. Per i primitivi e per i bambini, la mimesis è metexis: agire sull’immagine significa partecipare e intervenire direttamente sul modello di cui è immagine. Le linee, dunque, possiedono intenzionalità e forza propria o si dinamizzano nell’incontro con il soggetto, che trasferisce in esse le sue energie creative? Vitalismo empatico o difesa dall’agorafobia provocata dal caos del mondo? Il ricorso al segno, come attesta le serie di graffiti di Brassaï presente nella mostra, sembra essere una risposta ad una di queste due tendenze umane: difficile stabilire quale di esse sia la più originaria. Troviamo qui all’opera due antitetici approcci teorici al gribouillage, di cui è possibile rinvenire significativi esempi nella storia dell’estetica. Da una parte, Theodor Lipps, promotore del fortunato – e oggi abusato – concetto di empatia (Einfühlung), secondo il quale tutte le linee, dalle più essenziali alle più aggrovigliate, sembrano dotate di un’intensità, di una direzione e perfino di tonalità affettive proprie, pur essendo noi a “riempirle” dei significati dei nostri vissuti: l’io diventa oggetto e l’oggetto diventa io, ospitando la sua auto-attivazione. Dall’altra, Wilhelm Worringer, autore del testo programmatico per gli espressionisti, assai apprezzato anche da Kandinsky, in Astrazione e empatia (1908) sostiene che l’umanità primitiva, nordica e orientale – a differenza di quella greca classica o rinascimentale italiana – non abbia cercato di empatizzare con le forme della vita organica e animale, ma si sia rifugiata nella linea rigida, geometrica, imitando le forme inerti del cristallo e del regno minerale. Secondo questa prospettiva, i graffiti dei primi uomini, così come i disegni dei bambini e le opere dei moderni ispiratisi alla cosiddetta “arte primitiva” – Picasso e Dubuffet, opportunamente convocati in questa mostra – sarebbero l’espressione del terrore originario provato dall’uomo nei confronti della natura percepita come ostile e minacciosa, ma anche da ogni neonato che, superato il trauma della nascita, si affacci al caos della vita. Dai graffiti sulle pareti delle caverne o sui muri all’arte astratta il passo è breve: entrambi sarebbero dei modi di congelare il ribollire della vita dentro a forme controllabili e di proteggere se stessi dall’immane tragedia del mondo, azzerando freudianamente tutte le tensioni e ripiegando nell’inorganico.

Un’altra questione di rilievo esplorata dalla mostra è quella del rapporto tra disegno e scrittura. Si è visto, del resto, come il secondo significato di gribouillage abbia a che fare con la cacografia, il segno illeggibile, ma anche con il geroglifico e l’ideogramma: più in generale, con i modi in cui un tratto (sensibile, materiale) arrivi ad acquistare dei significati (invisibili, astratti). Già alcuni secoli or sono Orazio aveva sentenziato “ut pictura poesis” mentre, più di recente, Roland Barthes ha fondato la semiologia, ovvero la “scienza generale dei segni”. L’uomo è non solo un “animale metafisico”, destinato a porsi le grandi questioni dell’essere e del nulla, della nascita e della morte, del bene e del male, ma anche e soprattutto un “animale semiotico” assai sofisticato, intrappolato ab origine nel gioco della significazione, per cui “aliquid stat pro aliquo”, ovvero qualcosa di presente è segno di – o rinvia a – qualcosa di assente. A che cosa rinviano, ad esempio, gli scarabocchi mistici di Luigi Pericle se non alla messa in scena di quel gioco che corrisponde all’ambiguo movimento del tracciare che unisce mentre divide? Un segno presenta qualcosa proprio perché si cancella o si annulla nel suo essere traccia: si può avere accesso al senso solo distraendosi dalla “figura” che lo veicola. Come osserva Barthes, mentre commenta Saussure, la produzione del senso non consiste nella correlazione di un significante e di un significato, ma più essenzialmente in “un atto di ritaglio simultaneo di due masse amorfe, di due regni fluttuanti” (Elementi di semiologia), quello delle idee e quello dei suoni o dei grafemi. Il senso, un ordine appare quando queste due masse (disordinate) vengono simultaneamente ritagliate, scomposte e quindi articolate.

Alla fine di questo sbalorditivo percorso attraverso cinque secoli della storia dell’arte, tanto avventuroso quanto disordinato e pieno di inciampi, ci vengono alla mente alcune considerazioni di Jean Clair, che si lamentava per il livellamento artistico degli anni sessanta e settanta. Dopo la sbornia della pittura tachiste, per cui bastava avere un’interiorità da esprimere per fare gli artisti, l’involuzione delle avanguardie astratte, pop o concettuali, il colpo di mano della fotografia e del fotorealismo a detrimento della terza arte, si fa strada con insistenza un ritorno al disegno, e quindi anche alla pratica dello scarabocchio. Alla potenza mortifera dell’industria culturale, che tende a trasformare il mondo sensibile in uno strumento per fare profitto, attraverso la riproduzione in serie di immagini prive di valore, si contrappone il lavoro artigianale del disegnatore, che con sguardo attento e personale “procede attraverso congiunzioni e disgiunzioni, sceglie e raccoglie, distingue o confonde, elimina e ordina secondo una gerarchia” (Critica della modernità, 1983). Non siamo certi, come Jean Clear, che il disegno preceda sempre la pittura, sia sul piano filogenetico (della storia dell’arte nei secoli) che ontogenetico (della maturazione individuale di ognuno). Condividiamo però il suo richiamo alla dimensione materiologica del segno e del di-segno, all’unicità del tracciare che – con un atto di decisione – disvela sempre di nuovo la presenza del mondo e il nostro passaggio in esso: “linguaggio incoativo, dialogo rudimentale, approccio di riconoscimento dell’altro, il disegno appartiene sempre all’inizio di un mondo, tocca sempre terre vergini” (Critica della modernità).

La mostra continua
Accademia di Francia
Viale della Trinità dei Monti 1, Roma
3 marzo – 22 maggio 2022
Dal lunedì alla domenica (chiuso il martedì) tra le 10.30 e le 19.00 (ultima entrata 18.30)
Venerdì e sabato tra le 10.30 e le 20.00 (ultima entrata 19.30)

Gribouillage/Scarabocchio. Da Leonardo da Vinci a Cy Twombly
curatrici Francesca Alberti (Villa Medici), Diane Bodart (Columbia University)
curatori associati Philippe-Alain Michaud (Centre Pompidou), Anne-Marie Garcia (Beaux-Arts di Parigi)
curatore per l’istituzione partner Giorgio Marini (Istituto per la Grafica, Roma)
mostra-evento prodotta e organizzata dall’Accademia di Francia a Roma e i Beaux-Arts di Parigi
con il sostegno del Musée national d’art moderne – Centre Pompidou, Parigi
in collaborazione con l’Istituto Centrale per la Grafica, Roma