Cronache dell’Immaginario

Troppa luce. Oggi nel mondo c’è troppa luce, ovvero troppa visibilità, troppe immagini, troppa fiducia nel progresso e nella comunicazione globale; troppe parole, troppa esposizione, e come potrebbe relazionarsi l’arte a tutto questo, essa che è per definizione “esposta” e composta da elementi sensibili e visibili?

Ad Reinhardt è stato uno dei più rappresentativi artisti dell’Espressionismo Americano, rappresentante fondamentale di quella Scuola di New York che nel dopoguerra spostò definitivamente l’asse del mercato dell’arte e della produzione artistica di livello dall’Europa al nuovo continente. Probabilmente si tratta dell’artista che spinse più all’estremo le categorie proprie della pittura americana astratta che, da Pollock a Rothko e Newman, ambiva alla ricerca dell’assolutezza dell’atto della pittura; in altre parole, una pittura che escludesse riferimenti espliciti e rappresentativi al mondo esterno e mettesse in scena la purezza della pittura in sé.
Gran parte della ricerca informale coeva in Europa tentava di mostrare la pittura attraverso il materico, altri ambivano all’astrattezza del segno col colore; l’audacia di Reinhardt fu quella di perseguire il grado zero assoluto della visibilità, dimostrandosi in questo il degno erede di Malevič. Come il pittore russo realizzò il Quadrato nero su fondo bianco, così Reinhardt si concentrò sulla realizzazione di monocromi neri, dove non c’è distinzione tra figura e fondo ma tutto viene assorbito dal puro nero della pittura.
Il nero di Reinhardt, in prima battuta, escluse significati simbolici e contenuti specifici, dato che era lo stesso pittore ad affermare che “L’arte è arte-in-quanto-arte e qualunque altra cosa è qualunque altra cosa”.
Ma d’altronde, all’indomani dell’esperienza del peggiore degli orrori della storia moderna, ovvero della persecuzione nazista, lui che era membro di una famiglia di esiliati ebrei negli Stati Uniti, come avrebbe potuto escludere completamente la storia dalla sua produzione e realizzare un’arte che fosse solo arte, e mostrasse solo se stessa senza comunicare nulla?
La ricerca della purezza del monocromo è paradossale: da un lato, la purezza ambita dall’arte nell’astrazione sembra un’offesa nei confronti delle vittime della catastrofe storica, perché si chiude in se stessa e pensa alla ricerca linguistica sganciata dal mondo (ed è quanto d’altronde si evince dagli scritti di Reinhardt), dall’altro lato però questa ricerca è svolta sotto il segno del “nero”, ovvero quell’”ideale del nero” del quale già Theodor W. Adorno parlava a proposito dell’arte del dopoguerra nella sua Teoria estetica. Insomma, osservando questo nero, non si può non pensare alla tragedia che riguarda la storia, e in fondo la ricerca della purezza in negativo si rivolge a quella stessa tragedia, perché è come se la coprisse con un velo.

Non solo: in realtà quel nero apparentemente compatto si frammenta a una visione attenta, e mostra come in realtà si tratti della composizione di blocchi di differenti tonalità di nero. Nell’identità perciò si cela la differenza, nel buio più totale emerge timidamente una speranza, e osservando ancora meglio a emergere da queste tele sono delle croci: la ricerca dell’assoluta purezza della pittura si rivela una teologia, ma la croce è anche simbolo della possibilità di interrompere il buio totale. Perché riemerga la vera luce della speranza, c’è bisogno di oscurare la luce mistificante e illusoria del dominio.
Così se la croce emerge dal buio, il buio e il silenzio sono necessari alla salvezza: la tela nera di Reinhardt è ancora oggi un’interruzione nel flusso frenetico di immagini e simulacri prodotti dalla tecnologia massmediale, un blocco non assimilabile dalla logica commerciale odierna che attraverso l’offerta e la totale disponibilità di qualunque tipo di immagine tramite internet può soddisfare qualsiasi perversione e voglia.

Se le immagini, nell’odierno orizzonte culturale, sono tutte facilmente consumabili, come consumabili sono le immagini di violenza, di pornografia, di morte che un tempo erano in grado di scuotere l’animo del fruitore, l’immagine nera di Reinhardt oggi è forse l’unica immagine che si oppone alla profusione della consumabilità di immagini perché nega l’immagine stessa; per questo è “arte pura”, perché attraverso l’astrazione assoluta di queste tele possiamo tornare a guardare le immagini del mondo con altri occhi.