Viaggio negli ambienti digitali, tra fascino e inquietudine

All’interno degli spazi espositivi di Palazzo Cipolla, la Fondazione Terzo Pilastro propone una mostra dedicata alla new media art, con particolare attenzione alla Realtà Virtuale e all’Intelligenza Artificiale, rivolgendo al pubblico gli interrogativi che la tecnologia più evoluta impone a ciascuno di noi e che l’arte riesce a esprimere al meglio.

Negli ultimi tempi si è fatto un gran parlare del ruolo che l’Intelligenza Artificiale ha assunto o potrà assumere in maniera sempre più penetrante nel corso dei prossimi anni, a tutti i livelli sociali e culturali. Senza ombra di dubbio, l’accelerazione impressionante dell’evoluzione tecnologica, digitale e principalmente algoritmica, ha costretto tutti, a prescindere dal proprio campo di appartenenza, a porsi interrogativi essenziali di natura etica e filosofica.

Il settore artistico, ma più in generale tutto il comparto legato alla creatività, non poteva restare ovviamente indenne da ciò; d’altronde, un tratto tipico dell’arte contemporanea a partire dall’avvento della fotografia nel XIX secolo è l’adozione di strumenti espressivi sempre nuovi e la necessità di mettere in discussione e ripensare radicalmente, di volta in volta, il senso di categorie e concetti come “bellezza”, “autore”, “opera d’arte”, “immagine”. Ormai è diventata un’ovvietà che i linguaggi informatici e i codici di programmazione, nonché gli ambienti e gli spazi digitali, siano da diverso tempo componenti principali della sperimentazione artistica a livello internazionale.

La mostra curata da Gabriele Simongini e Serena Tabacchi allestita a Palazzo Cipolla ha un titolo azzeccato perché particolarmente efficace: Ipotesi Metaverso. Nella sua semplicità, l’accostamento di questi due termini mette in evidenza una serie di ambiguità che rendono il dibattito sul Metaverso particolarmente suggestivo perché irrisolto e per certi versi anche paradossale. Innanzitutto bisogna sottolineare che quella del tanto celebrato “Metaverso”, lanciato da un hype massmediatico pilotato dall’entusiasmo monopolistico zuckerberghiano, è un’ “ipotesi” nel senso che recentissimamente la bolla di attenzione nei confronti del Metaverso si è in buona parte sgonfiata. Questo perché, soprattutto nell’arte, il riconoscimento di dignità estetica ed espressiva agli spazi “altri” rispetto a quello fisico e perciò l’attenzione nei confronti degli ambienti digitali, è un fenomeno già particolarmente battuto e sdoganato, probabilmente già a partire dagli anni Novanta. Ma non solo, perché la mostra, accostando in maniera sagace produzioni artistiche “classiche” legate alla tradizione (dal Barocco al Futurismo, dal Surrealismo alla Metafisica) a opere ipercontemporanee, dimostra come la “continuità” sia essenziale per comprendere il valore dell’innovazione tecnologica soprattutto nel settore artistico. Come Lev Manovich ha più volte sottolineato, la rivoluzione digitale può essere definita tale, rivoluzionaria, solo evidenziando come siano moltissimi gli elementi già presenti nella cultura analogica e che sono stati potenziati e amplificati. Proprio l’affascinante questione degli “universi paralleli”, ovvero l’ipotesi per cui noi abitiamo solo uno degli universi possibili e che esistono indefinite altre realtà parallele e universi alternativi che possono venire esplorati dall’immaginazione e oggi dalla tecnologia digitale, nasce con la modernità, ma probabilmente rappresenta un fattore antropologico tipico del pensiero e della fantasia umani. E gli artisti hanno sempre dato voce ed espressione visiva a questa “ipotesi”.

Per questo, Andrea Pozzo e Maurits Cornelis Escher, Giambattista Piranesi e Giorgio De Chirico sono da considerarsi i pionieri e gli avi dell’ipotesi del Metaverso, dal momento che attraverso gli strumenti espressivi a loro disposizione già puntavano il loro sguardo oltre la realtà conosciuta che si presentava alla visione ordinaria. Come d’altronde afferma uno degli artisti in mostra, Mario Klingemann, probabilmente il più talentuoso tra gli artisti che lavorano attivamente con l’Intelligenza Artificiale, l’artista che lavora in osmosi con l’IA compie un “viaggio”; si tratta del viaggio che attraversa il cosiddetto “spazio latente”, ovvero lo spazio che emerge attraverso le GAN o “reti neurali generative avversarie”, sistemi algoritmici complessi che simulano il funzionamento del cervello. Tale spazio latente è lo spazio di tutti i possibili tentativi che la rete neurale generatrice crea, ignoto e astratto finché la seconda rete, la “discriminatrice”, non seleziona immagini buone che non si identificano con quelle reali già esistenti. In questo gioco duale si inserisce l’artista che pilota e coordina il processo creativo che si palesa come un autentico “work in progress”: il mondo espressivo lo vediamo formarsi progressivamente, come una sorta di natura naturans per dirla con termini del lessico filosofico classico. Noi non assistiamo a un’immagine già fatta ma al suo svilupparsi e al suo “cercarsi” attraverso i calcoli: sempre Klingemann parla di “neurografie”, che inverano quanto Paul Klee oltre un secolo fa sosteneva con la celebre battuta “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile”.

E qui si apre la prospettiva più problematica sull’Ipotesi Metaverso: d’altronde le interessanti installazioni interattive in Realtà Virtuale e Realtà Aumentata, dall’opera ispirata all’urbanistica di Krista Kim all’altalena di Fabio Giampietro e Paolo Di Giacomo, dal mondo digitale grottesco di Federico Solmi a quello in fieri di Refik Anadol, fino  alla performance audiovisiva di Alex Braga, spesso rilanciano l’interrogativo di dove finisca l’arte e inizi la dimensione propriamente ludica, e perciò che cosa dovremmo intendere per interattività in senso estetico. Nell’ipotesi del Metaverso c’è da chiedersi questo, ma ancor di più c’è da interrogarsi sull’universo che sta sicuramente prendendo piede sovrapponendosi al nostro mandandolo definitivamente in pensione: non è un caso che gli investimenti delle grandi compagnie multinazionali del capitalismo digitale abbiano virato dal Metaverso alla ricerca sull’Intelligenza Artificiale, che nei settori pratici (medico, ingegneristico, economico, educativo…) ha una ricaduta essenziale. E tuttavia, proprio in questo momento e a questo punto la “ricerca artistica” si dimostra essenziale, distinguendosi da subito dalle pratiche creative legate al design, all’illustrazione, al figurativismo classico.

Sì, perché le opere di Klingemann ad esempio, ma anche quelle di molti altri artisti di ultimissima generazione, non vogliono esaltare l’immaginario algoritmico, non rivaleggiano con la bellezza dei canoni classici, non si confondono col “vero”. Sono sempre immagini inquietanti, anzi “perturbanti” perché connesse al fenomeno dell’uncanny valley dove la presenza di una mente artificiale destabilizza dal momento che oscilla sul confine liminare di uomo e macchina, di umano e postumano. Spesso si generano mostri, ristabilendo il senso che ha la mimesis, e questo ci permette di recuperare una funzione che l’arte rivendica da sempre: far riflettere sulla realtà, scuoterla, metterla in questione, interrogarla, soprattutto adottando gli stessi mezzi su cui quella stessa realtà si struttura.

La mostra continua
Palazzo Cipolla
Via del Corso, 320 – Roma

Fondazione Terzo Pilastro Internazionale presenta
Ipotesi Metaverso
a cura di Gabriele Simongini e Serena Tabacchi