La rabbia e la droga

Un talento per la composizione e il colore. Ma troppo dolore in corpo: la parabola artistica di Jean-Michel Basquiat è stata breve e irrisolta come la sua vita. Lo dimostra la bella mostra allestita presso il Mudec di Milano.

Sarò eretica, ma non le considero opere davanti a cui stazionare imbambolati dallo stupore: i “graffiti” dell’artista afro-americano Jean-Michel Basquiat, morto nel 1988 a soli 27 anni, sono prima di tutto un grido di dolore.

Di un esponente di una non-minoranza (quella nera) discriminata, di un ragazzo dall’infanzia non felice, di una personalità tormentata, di una vittima della droga. E anche di un’America che, tra il 1960 e il 1988, portò all’apice al tempo stesso il suo successo e le sue contraddizioni, passando dall’euforia dell’epoca kennediana al fracasso del Vietnam, dal Watergate al pasticcio dell’Afghanistan, dal trionfo alla caduta di Wall Street, da Rambo-Reagan al forse imprevisto effetto di provocare la dissoluzione dell’Urss.

Certo Basquiat non fu testimone, né tanto meno protagonista, di tutto questo. Tuttavia portava dentro di sé le speranze e (forse, ancora di più) le illusioni suscitate da Martin Luther King e Malcom X. Come anche la frustrazione generata, in un ragazzo nato a Brooklyn ma dotato di un talento e di un’intelligenza che non potevano passare inosservati, dall’ancora nuovo fenomeno del business dell’arte.

Ora, al Mudec di Milano, una mostra dall’allestimento ampio e luminoso, illustra la tormentata vicenda artistica e umana di Basquiat. Fuggito di casa a 14 anni e arrestato per vagabondaggio, Jean-Michel si era trovato a frequentare la City-as-School di Manhattan, una scuola per ragazzi iper-dotati ma insofferenti alla didattica tradizionale. Lì, a 17 anni, aveva conosciuto Jacob Riis, compagno di “graffiti” sui muri di New York, con la firma congiunta di Samo “Same Old Shit” (“sempre la stessa merda”). Ma soprattutto partner di eccessi e droghe. Il paradosso è che, in una New York feroce con chi vive ai margini, Basquiat riesce a farsi notare: inizia a frequentare Andy Warhol, Keith Haring, Robert Mapplethorpe. Ha una relazione con Madonna (che non era ancora una cantante celebre); passa il tempo in due “templi” del pop newyorkese: il Club57 e Mudd Club.

Questo non vuol dire che la sua carriera decolli all’istante. Ma è di certo rapida: nel 1982 ha successo la sua personale, a New York, nella galleria di Annina Nosei. Dal 1983 Basquiat lavora con Andy Warhol: nella mostra milanese sono esposti diversi lavori a doppia firma. Dovrebbe essere una consacrazione: per l’artista è una sorta di smacco. Tra frustrazione e droghe, la sua mente vacilla. Nel 1987, dopo la morte di Warhol, c’è chi lo dà già per finito. In realtà il meccanismo autodistruttivo è in corso da tempo: il 12 agosto 1988 muore di overdose da eroina.

La mostra al Mudec rende ragione del suo successo (molto americano, a dirla tutta), esponendo opere di grande formato, coloratissime, ironiche, complesse e primitive al tempo stesso. Ma, almeno a me, lascia l’impressione di un fallimento: Basquiat è un fenomeno di mercato e oggi nessuno, anche solo per ragioni di business, ne contesterebbe il valore. Ma la vera e propria “ideologia dell’artista maledetto” non ha fatto sì che talenti come Basquiat abbiano perso tempo (e poi la vita) più per costruire un personaggio che per lavorare sull’arte? Ne hanno avuto, in genere, pochi vantaggi. Hanno arricchito mercanti e dealer. Non è detto che reggeranno all’impatto del tempo: fosse solo per eccesso di affollamento. E paradossalmente per il conformismo di quel ribellismo: sembrava rivoluzione. Nel giro di pochi anni, era diventato del tutto “normale”.

Foto di Carlo Rotondo

La mostra continua:
Mudec, Mudeo delle culture

Via Tortona, 56 Milano
fino al 26 febbraio 2017

Jean-Michel Basquiat
a cura di Jeffrey Deitch e Gianni Mercurio