Il cacciatore di immagini

La mostra Images Are Real, attualmente in corso al Mattatoio di Roma, omaggia la settantennale carriera del regista sperimentale Jonas Mekas, con una raccolta di immagini statiche e in movimento che va a ritroso dall’11 Settembre alla controcultura dei Sixties.

Nato nel 1922 e morto quattro anni fa, Jonas Mekas è stato uno dei grandi patriarchi del cinema indipendente e sperimentale americano. Di origini lituane, esponente di punta del cosiddetto New American Cinema, dai primi cortometraggi fino all’opera-mondo As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty ha saputo tracciare un percorso e un corpus di opere al tempo stesso avanguardistico e compatto, in cui le immagini venivano utilizzate all’interno di un discorso più ampio sulla memoria, sulla mass-medialità, e sul linguaggio stesso. In attesa che Quodlibet pubblichi un’importante raccolta di sue interviste e scritti teorici sul cinema e sul senso dell’audiovisivo, un altro campo in cui Mekas ha saputo lasciare la sua impronta, al Mattatoio di Roma è stata allestita la mostra Images Are Real. A cura di Francesco Urbano Ragazzi, la mostra vuole «guardare in retrospettiva alla settantennale attività di Jonas Mekas dentro e oltre la storia del cinema d’avanguardia».

Images Are Real si apre con le riprese fatte da Mekas stesso dal tetto di casa delle Torri Gemelle in fiamme l’11 settembre 2001, e le opere esposte datano, a livello cronologico, dalla fine degli anni cinquanta fino a pochi anni fa. Il titolo riprende un voice-over di Mekas nel suo film Out-takes from the Life of an Happy Man, in cui il regista diceva «le memorie sono passate, ma le immagini sono qui, e le immagini sono reali». Immagini tanto fisse quanto in movimento, dal momento che la mostra alterna film e video monocanale a serie fotografiche di vario taglio e argomenti, spesso tratte da singoli fotogrammi di suoi film: la serie di fotografie Purgatorio racconta i primissimi anni di Mekas e del fratello Adolfas a New York, dopo essersi trasferiti dalla Lituania negli States grazie a un programma delle Nazioni Unite; tutt’altri toni ha invece la serie Birth of a Nation (Family).

Tratta dal montaggio dell’omonimo film del 1997, Birth of a Nation dispiega una lunga serie di ritratti che mostrano in maniera variegata celebrità come Andy Warhol, Jacques Tati, un anziano Charlie Chaplin in totale penombra, oltre ad alcuni autoritratti dello stesso Mekas. Tutti questi ritratti testimoniano di una fase successiva della carriera e della vita di Mekas, quando ormai il regista era pienamente inserito nei circoli della cultura e della controcultura newyorkese, fianco a fianco con quelle che già ai tempi erano delle icone mondiali: ma Warhol e gli altri sono ritratti spesso da Mekas in momenti di assoluta quotidianità, spesso per strada, come se fossero passanti comuni, invertendo così il concetto stesso di celebrità. Spuntano anche colleghi di Mekas, altri importanti registi sperimentali come Micheal Snow e Stan Brakhage, oltre a Kenneth Branagh, regista d’avanguardia anche lui ma più noto come autore del leggendario Hollywood Babylonia, e anche un futuro produttore hollywoodiani del calibro di Joel Singer, a testimoniare tanto la comunanza di intenti e una certa fratellanza priva di competitività nel clan dei registi d’avanguardia americano-canadesi, quanto una certa insospettabile contiguità tra il cinema americano più underground e quello più capitalista-istituzionale.

In tempi non sospetti, in occasione di una intervista reciproca con Pier Paolo Pasolini (e Gideon Bachmann) datata 1967, Jonas Mekas affermava che «oggi in America ci sono sette milioni di cineprese nelle case, sette milioni di cineprese da 8 e 16 mm. Noi toglieremo il cinema all’industria e lo faremo alle case, questo è il senso di tutto il cinema underground». Pasolini si mostrava più scettico: questa democratizzazione dell’immaginario non gli pareva troppo concreta, e si aspettava una liberazione, se mai sarebbe venuta, non tanto dalle cineprese quanto dalle macchine da scrivere, dalla pratica di pensiero critico instaurato dalla scrittura. Il tempo ha dato ragione, e torto, a entrambi: la scrittura sparisce sempre di più, ma sempre là si radunano le ultime possibili armi di problematizzazione efficace; le cineprese amatoriali si sono evolute in smartphone, ma questo non ha portato ad alcuna democratizzazione, se mai a un appiattimento complessivo della riflessione e del senso stesso dell’immagine. Eppure il corpus artistico di Mekas – che pure non ignorava le componenti tragiche del vivere umano come testimonia il video d’apertura della mostra che inquadra l’11 Settembre, la tragedia farsi simbolo mediatico – sprigiona un’inguaribile carica utopistica: e la biografia stessa di Mekas, questo lituano emigrato che ha vissuto in senso artistico il sogno americano, assistendo a gran parte del Novecento in posizioni sempre marginali ma da prospettive sempre privilegiate, per arrivare a lambire i primi due decenni del Duemila, la biografia stessa di Mekas appare come una riflessione a cuore aperto sull’immagine, sull’immaginario e sull’immaginare, forte di una componente teoretica che i registi di oggi, tanto i sedicenti indipendenti quanto quelli più canonici e “sistemici”, non arrivano a cogliere, figuriamoci a formulare.

La mostra continua
Mattatoio di Roma
Roma, piazza Orazio Giustiniani 4
Jonas Mekas. Images Are Real
dal 9 novembre 2022 al 26 febbraio 2023