Autorialità e postmedialità

Al CAMeC di La Spezia, l’allestimento espositivo a cura di Luca Fani – che «si protrarrà per sei mesi modificandosi dal giorno dell’inaugurazione fino all’ultimo […] in un rinnovato dialogo con artisti contemporanei che sperimentano, oggi, i linguaggi con i quali Verde si è confrontato tutta la vita» – rappresenta un’occasione imperdibile per avvicinarsi senza compromessi alle complessità pratico-concettuali della questione “postmediale”, vale a dire della «disseminazione della tecnologia nelle vite» che «implica la vaporizzazione dell’opposizione tra naturale e artificiale» (La condizione postmediale: media, linguaggi e narrazioni di Ruggero Eugeni), e della “scomparsa” dell’autorialità.

Attraversando lo sperimentalismo estremo del Novecento e il canone del “regime di singolarità” (la trasgressione come valore pubblico ed artistico) dell’attuale secolo, la riflessione estetica del nuovo millennio ha posto alcune questioni cruciali per la propria stessa esistenza. Particolare enfasi è stata dedicata, e continua a esserlo, alla problematica del senso e della gerarchia tra le arti ma, da questo punto di vista, pur concludendo il più delle volte quanto sia inconsistente e inutile – se non proprio pretestuoso – pensare di organizzare le “espressioni artistiche” secondo una rigida tassonomia e nonostante questo dibattito affondi le proprie radici in epoche lontane, la tematica non risulta di scontata risoluzione.

Le manifestazioni della creatività e della spiritualità sono molteplici, tale affermazione è scontata, se non proprio banale. Meno “ovvio”, ma nient’affatto rivoluzionario, è riconoscere l’arbitrarietà di ogni decisione circa la discriminazione tra arte e non arte. La complessità di queste due “sentenze”, la prima che afferisce al riconoscimento della pluralità e della “compromissione” delle arti con lo spaziotempo di appartenenza e la seconda che rimanda alla specificità del fenomeno artistico, convivono in un suggestivo equilibrismo nel titolo della mostra spezzina dedicata al genio di Giacomo Verde.

Roland Barthes, in un articolo del 1968, La morte dell’autore, aveva introdotto l’idea – esaltata dal postmodernismo – secondo cui la lettura autentica sarebbe possibile solamente ammettendo che tale processo è in realtà una riscrittura dell’opera di un autore, il quale, di conseguenza, è necessario che scompaia. Oggi per Liberare l’arte dagli artisti occorre essere consapevoli non solo della necessità di tale morte, ma del fatto che essa non “basta” a restituire dignità all’arte e che non è neanche un “giudizio” da assumere ingenuamente e una volta per tutte.

“Superato” Gutenberg siamo entrati a pieno titolo nella fase della Galassia Netflix (Alessandro Alfieri) e qualcosa di epocale ha investito il problema della contaminazione tra l’arte e le altre “sfere” della produzione umana compromettendo, in un certo senso, la riconoscibilità delle opere d’arte e la validità del ruolo dell’artista. Per comprendere l’indistricabile ginepraio sollevato a tal riguardo da studiosi e artisti (che investe il pubblico nel momento della fruizione) sarà utile far riferimento ad alcuni interrogativi che, nell’età contemporanea, sono sorti a partire dall’incontro tra estetica, comunicazione, scienza e sociologia: cosa distingue un momento qualificabile come “artistico” da quelli relativi alla sfera massmediale (comunicazione), all’applicazione delle scoperte scientifiche (scienza) o alla collettività concreta in cui si agisce (società)? L’artista può esiliarsi nella propria autoreferenzialità, non svolgere un ruolo attivo nella società e non contribuire in maniera concreta al miglioramento delle condizioni di vita nel proprio tempo? L’arte può riaffermare un qualche principio di autorialità o deve adeguarsi alle innovazioni strumentali della propria epoca e lasciare che essa – l’arte – “accada” secondo le determinazioni discorsive storicamente esistenti?

La problematica è enorme e la possibilità di una risposta univoca è chiaramente destinata al fallimento. Tuttavia, l’osmosi tra diversi campi della creazione (arte), della ricerca (scienza) e dello studio dell’essere umano (sociologia) è un dato di fatto. Inoltre riconoscere che non esiste separazione, ma distinzione/contaminazione tra l’intenzione creativa, l’innovazione strumentale e la relazione tra soggetti e “ambienti” rappresenta non solo un elemento tipico della “narrazione postmoderna”, ma anche un concime che può rendere fertile il terreno della sperimentazione artistica. Se i confini tra le varie modalità espressive sono ormai saltati non per questo bisogna cadere nell’errore opposto e pensare che tra i vari settori (della scienza, delle arti e della collettività) non esistano esclusività d’azione, specificità di analisi e obiettivi distinti. Animazione digitale, arti visive, dispositivi tecnologici, videoarte e attivismo reinterpretati nell’ottica dei nuovi media e delle tecnologie del virtuale hanno sconvolto l’intero immaginario occidentale, aperto voragini di senso e hanno creato un vortice nel quale è complicatissimo, ma indispensabile, muoversi con consapevolezza per non venirne travolti. La dialettica tra intenzione autoriale e tecniche impersonali è particolarmente evidente se calata nell’esempio – ormai scolastico – della “difficoltà” delle arti sceniche di relazionarsi con la propria dimensione performativa: il fatto che tutto possa essere interpretato as performance non significa che – in nome di questa possibilità – teatro, politica, comunicazione ed entertainment siano la stessa cosa.

L’occhio lungo verso il futuro e la capacità di non lasciarsi fagocitare dal sistema del consumo possono rappresentare due indicatori fondamentali per riconoscere l’esistenza di una visione artistica. Riuscire a comprendere “cosa è successo”, “cosa sta accadendo” e “cosa si sta definendo” nell’orizzonte discorsivo occidentale “qualifica” i protagonisti della scena dell’arte, anche perché l’adozione di dispositivi tecnologici digitali ed elettronici nel linguaggio estetico non è più una novità: c’è infatti da “diffidare” di chi pensa che il loro innesto nella grammatica dell’arti costituisca una “rivoluzione”, qualcosa di cui stupirsi o la panacea di ogni male (dal punto di vista della struttura economica o da quello del rinnovamento delle arti). I linguaggi informatici di programmazione (pensiamo a CBM 8032 AV di Robert Henke), la strumentazione e le tecnologie digitali di manipolazione delle immagini non costituiscono più nulla di particolarmente nuovo per la cosiddetta “new media art”, definizione alquanto ambigua nel 2022 e che andrebbe contestualizzata agli anni Novanta e Duemila. Se la prospettiva dello “shock” tecnico-informatico è ormai “logora” da qualche decennio, questo significa che oggi non è giustificabile alcuna enfasi, che sia di condanna o di esaltazione, rispetto alle opportunità autoreferenziali della tecnologia. Che queste potenzialità vadano indagate “senza scrupoli”, con instancabile sincerità e abnegazione e senza nascondere la propria individualità, come ha fatto Giacomo Verde, significa aver compreso che se il “principio di esposizione” (i materiali dell’arte “significano” “anche” per quello che sono, non solo per quello che simboleggiano – si tratta di una tendenza complessiva di ricerca sui “materiali” e sui principi dell’arte che è possibile riscontrare, per esempio, nella poesia pura di Mallarmé, nel neoplasticismo/De Stijl di Mondrian e nella musica sperimentale di John Cage dagli anni 50) è un fenomeno ormai radicato nelle potenzialità dei “nuovi” artisti, allora rispetto a esso l’artista del nuovo millennio non deve mai mostrare alcun timore o reverenza.

Inoltre, nonostante lo scorso secolo si sia dedicato testardamente al tema della fine dell’autore e dell’autorialità, oggi sarebbe il caso di tornare ad affermare che è l’artista, non la tecnologia, a “detenere” l’intenzione di una creazione – che sia un evento performativo, un’opera o un progetto. Sicuramente esiste un’ecologia di strumenti e di concetti a disposizione che può essere sovvertita solo a un certo punto, ma questo non significa radicalizzare l’idea secondo la quale l’arte è un evento che interroga l’artista come se quest’ultimo non avesse alcuna responsabilità delle proprie azioni.

Bisogna infatti mettere e mettersi in guarda da cosa si intenda per artista. Per questo bisogna Liberare l’arte dagli artisti, non perché l’arte si produca senza artisti, tutt’altro. Il titolo della mostra prova a effettuare una spericolata, affascinante e doverosa torsione concettuale: bisogna liberarsi dalla retorica dell’artista “qualunque” ma non da qualunque (ogni) artista; bisogna riconoscere la dignità dell’arte e la responsabilità di chi assume su di sé l’onere, oltre che l’onore, di crearla e produrla. E non sono in molti coloro i quali riescono a muoversi tra tecnologia e creatività: la sperimentazione offerta a buon mercato dai media digitali e dalle loro “possibilità virtuali” e l’immersione intermediale tra spazi concreti e ambienti informatici sono concetti e/o strumenti che devono essere accostati con consapevolezza in maniera critica o in maniera organica alle modalità classiche di produzione artistica se vogliono attivare nuovi sentieri di senso (artistico) e nuove modalità di interazione sociale e finanche contrastare il Leviatano della falsa contrapposizione tra narrazione mainstream e contro-narrazione.

Tra i grandi interpreti di questo modus operandi, l’Italia può annoverare Giacomo Verde, geniale artista a tutto tondo che, purtroppo, non sembra godere dell’adeguato riconoscimento a causa della difficoltà di “inquadramento” di cui fu “vittima” durante la sua attività. Teatro, anche di strada, videoarte, documentari, artivismo: Verde fu autore eclettico, trasversale e capace di dialogare con le innovazioni del proprio tempo e di aprire squarci “operativi” alle nuove generazioni. Si tratta del “classico” Maestro che intende far “non-scuola” o, per dirla in termini psicanalitici, del Padre che, sapendo di dover morire, vuole che sia la sua prole a ucciderlo. Mutatis mutandis, si tratta dell’artista che libera l’arte per gli artisti a venire.

Verde, infatti, oltre ad aver compreso le potenzialità della tecnoarte, seppe sfidare l’atteggiamento cinicamente reazionario di chi si prostra di fronte all’innovazione (i manieristi) o di chi finge di non capire di fronte a essa quale sia la novità (la sindrome dello specchietto retrovisore di Marshall McLuhan). Terzo rispetto agli inguaribili progressisti e agli apocalittici di mestiere, la carriera di Verde fu talmente complessa e complicata da renderne ardua la definizione. Guardato con sospetto dai teatranti perché videoartista, dai cinefili perché artivista, e così via, Verde continua a testimoniare come sia possibile non far finta di ignorare gli sconvolgimenti artistici, sociali e antropologici determinati dal travolgente avvento di nuovi media, senza però convertire il proprio entusiasmo in fanatismo. In un caso come quello di Verde bisognerebbe dunque semplicemente continuare a parlare di artista: di artista che, avendo a destra Scilla (la tecnica) e a sinistra Cariddi (l’autorialità), deve “rendersi conto” della condizione mediale dei nostri tempi (o post-mediale, secondo la definizione di Ruggero Eugeni) e, allo stesso tempo, saper “mantenere” la propria produzione in una specificità artistica “dissonante” rispetto alle mode del tempo.

Esplorare l’arte di Giacomo Verde permette quindi immergersi in una sperimentazione che ha saputo rinnovarsi nel corso degli anni, traslando il proprio orizzonte in una relazione dialettica con l’evoluzione dei dispositivi tecnologici e digitali. La mostra Liberare Arte da Artisti. Giacomo Verde artivista che sarà visitabile fino al 15 gennaio 2023 presso il CaMEC di La Spezia, dimostra come l’azione artistica non va esaurita nel mero reiterare di quanto messo a disposizione dagli strumenti esistenti, ma che proprio il problema dell’oggettualità va messo al centro della azione/riflessione estetica da qualcuno che si prende la responsabilità di farlo, dunque da un autore.

L’allestimento del Museo spezzino si presta a mettere in evidenza la necessaria corrispondenza e osmosi tra intenzione autoriale e oggetto inorganico in quanto sviluppa un percorso che attraversa «una serie di installazioni, proiezioni, performance, workshop, incontri e collegamenti in streaming» e che svilupperà «i principali temi dell’Artivismo, della Tecnoarte e interazione e dell’Effimero, che erano al centro del lavoro e della creatività multidisciplinare di Verde».

La mostra “disvela” che non c’è contrapposizione tra il gesto fisico e la dimensione virtuale, che esiste un’interazione che andrebbe utilizzata per rilanciare il dibattito teorico e non per ripetere quanto Verde ha già detto e fatto. Bisogna liberare la sua arte dall’identificazione con l’artista che l’ha prodotta, perché è necessario che nuovi artisti si prendano la responsabilità di “seguire senza di lui”. Per questo non c’è una via maestra di fruizione della mostra: «il percorso si articolerà tra QR Code, monitor e installazioni interattive» affinché «il pubblico legga, azioni i dispositivi, guardi e sfogli i libri e i disegni in mostra, navighi tra #hashtag e opere di net art con il proprio cellulare, aggiungendo foto e commenti e disfacendo persino le opere». Questa impostazione sposa idealmente e perfettamente l’idea verdiana di una ricerca “necessaria” sugli spazi fisici e su quelli virtuali (esondando magari nella cibernetica e nel metaverso), la cui rispettiva dignità non va assunta nei termini di una ingenua identificazione (il virtuale più reale della realtà) o di una palese contrapposizione, ma va compresa nella fusione di orizzonti ermeneutici.

Le opere in mostra sono pensate come una sorta di “accessi” a dimensioni ulteriori dello spazio e ribadiscono le interrogazioni verdiane sulla materialità (del virtuale) e sulla virtualità (della materia), una modalità che, se non museificata, permette di amplificare il senso e le possibilità di entrambe. Ma il rischio che ciò accada (la museificazione) sembra remoto grazie alle intuizioni degli organizzatori che, opportunamente, ricordano – con Antonio Caronia – che «l’interazione prima di essere una caratteristica dei media digitali è l’essenza della relazione umana». La mostra è dunque «multimediale, quindi, e interattiva – ma non solo […] anche trasformista come lo fu Verde» ed essa si andrà organizzando con la presenza attiva de «il Mago Giac, il R(Ǝ)O Dadaista, il poeta Giak Verdun, l’attivista, il punto di riferimento della cultura antagonista, il teatrante tecnologico, il primo net artist italiano».

In accordo con questa modalità “cangiante”, saranno tre i momenti temporali attraverso i quali l’allestimento si svilupperà su base tematica fino al gennaio del prossimo anno. Nel primo, Artivismo, spiccano il live streaming con il Museo Popolare Gïåk Vёrdün di Viareggio e la proiezione del video-documentario di Verde Solo Limoni «nella giornata del 20 luglio dedicata ai fatti del G8 di Genova – coordinata da Dalila Flavia D’Amico (Università di Roma) in collaborazione con il Dipartimento Beni Culturali dell’Università di Milano». Artivismo chiuderà poi «la mostra a dicembre con un evento speciale coordinato da Tatiana Bazzichelli, fondatrice a Berlino del Disruption Network Lab e con ospiti internazionali tra i quali Steal This Poster», quando avrà luogo anche l’azione artivista del Collettivo SuperAzione.

Il secondo momento sarà Tecnoarte e Interazione e inaugurerà il 2 settembre puntando «i riflettori, invece che sul prodotto artistico, sul processo creativo dietro alle video-opere analogiche e interattive d’archivio». “Guest star” sarà «un’installazione interattiva speciale, l’unica conservatasi della lunga carriera di Verde, che arriverà direttamente dal Museo d’arte moderna di Gallarate MA*GA, dove è tuttora conservata, dal titolo Reperto Antropo-logico unonovenovesette (1997), grazie a un accordo con la Sovrintendenza Nazionale ai Beni Culturali», ma assolutamente da non perdere saranno i «disegni preparatori, materiali di studio e grafiche inedite saranno esposti grazie allo studio specifico di Andreina di Brino (Università di Pisa), in collaborazione con Anna Monteverdi (Università di Milano) e Sandra Lischi (Università di Pisa)» e la mostra-evento collettivo finale a cura dei docenti e degli studenti delle Accademie di Belle Arti di Carrara e di Bari coordinati da Clemente Pestelli, Domenico Quaranta e Massimo Cittadini, Antonio Rollo e Luca Fani.

Last but not least sarà la sezione coordinata da Anna Monteverdi per il Dipartimento Beni Culturali dell’Università di Milano, Effimero, che «si inaugurerà a ottobre e sarà dedicata all’arte del qui e ora par excellence: dal teatro di strada, insieme con la Bandamagnetica, ad alcuni tra gli spettacoli di Verde più iconici – il teleracconto Hansel & Gretel Tv, insieme con i GialloMare Minimal teatro; Storie mandaliche dall’ipertesto di Andrea Balzola, realizzato con Massimo Cittadini, Lucia Paolini e Mauro Lupone». Ad arricchire il programma performance, workshop per le scuole, omaggi a Verde e «riallestimenti teatrali in collaborazione con GialloMare Minimal teatro, Teatro la Piccionaia di Vicenza e Roberta Biagiarelli».

Liberare Arte da Artisti. Giacomo Verde artivista non ha nulla di didascalico o banalmente narrativo e per la sua natura trasformista e “anarchica” risulta del tutto inutile “dire” in un articolo le opere che si potranno ammirare in loco. L’invito, quindi, è a partecipare alla mostra oltre che vederla, perché, come disse con la solita sagace ironia Giacomo Verde, «è il re occhio che deve abdicare». Non si tratta di intrattenimenti multimediali fini a se stessi o di una stucchevole ricerca dell’originalità, ma di una sorta di avvicinamento alla complessità pratica e concettuale dell’arte che sposa la tecnologia e l’attivismo. Non si tratta di giochi autocompiacenti, ma di astrazioni che si concretizzano e di spazi reali che si aprono all’astrazione, dando luogo a una dimensione inquietante se assunta nella sua radicalità in quanto propria della modernità e aperta alla contemporaneità. Ovviamente, ammesso che qualcuna o qualcuno sappia coglierne gli interrogativi e non semplicemente pensare di trovare risposte preconfezionate in nostalgie veteroavanguardiste ormai morte e sepolte.

La mostra continua
CAMeC. Centro Arte Moderna e Contemporanea
Piazza Cesare Battisti 1, La Spezia
26 giugno 2022 – 15 gennaio 2023
da martedì a domenica 11.00 – 18.00

Liberare Arte da Artisti. Giacomo Verde artivista
la Mostra + 3 Ri-Cre’Azioni
a cura di Luca Fani
in collaborazione con DadaBoom, Ricre’Azione, Tommaso Verde
direzione del progetto Eleonora Acerbi e Cinzia Compalati
ufficio prestiti Cristiana Maucci
progetto grafico Gabriele Menconi