Ritratti d’Autore

George Tatge, fotografo di fama internazionale, già direttore dell’Archivio Alinari di Firenze dal 1986 al 2003, e con numerosissime opere esposte nei più importanti musei del mondo, prosegue il suo percorso creativo alla scoperta delle città italiane.

Affascinato dalla bella luce che emana la città affacciata sulla costa toscana, e attratto dall’aspetto metafisico dei luoghi – il quid che trascende il superficiale – George Tatge ha esplorato molti dei suoi quartieri alla scoperta dell’essenza del capoluogo labronico. Banco ottico e panno nero in testa – come un fotografo di altri tempi – spesso circondato dai cittadini livornesi incuriositi dall’insolito visitatore, è entrato in contatto con gli ampi panorami urbani ma anche con chi li vive quotidianamente.

Dalla sua biografia si evince che lei abbia viaggiato molto insieme alla sua famiglia di origine: cosa, al di là del sangue italiano da parte materna, le ha fatto scegliere proprio l’Italia come paese di residenza?
George Tatge: «Nel 1972, con una laurea in Lettere, cercavo una casa editrice dove lavorare e, quindi, pensavo a una grande città. Ho fatto un giro per gli Stati Uniti ma le metropoli americane mi facevano rabbrividire, non era un bel momento e quei luoghi erano molto violenti e poco ospitali. Allora, considerando che avevo già soggiornato a Roma a metà del corso universitario, ho pensato di provare anche nella città più bella del mondo, di cui mi ero innamorato durante quei due mesi trascorsi a insegnare inglese in un orfanatrofio in cambio di una camera dove dormire. Quindi, ho comunicato alla mia fidanzata di allora, che ha continuato a sopportarmi in tutti questi anni, che saremmo andati a Roma per circa un anno e siamo partiti per l’Italia. Ma anche Roma, poi, si rivelò troppo caotica e sentivo una certa distanza dagli italiani che mi consideravano uno dei tanti turisti, nonostante parlassi bene la lingua; ciò mi infastidiva, perché io non volevo rimanere in superficie, volevo conoscere le persone per quelle che erano. A quel punto ci trasferimmo a Todi, in Umbria – dove ero l’unico americano, divenuto in seguito l’americano di Todi – un posto dove le persone hanno voluto conoscermi per quello che sono veramente. È stata un’esperienza bellissima – durata 12 anni – fino a quando sono stato invitato a lavorare con l’Archivio Alinari di Firenze. La scelta dell’Italia, comunque, è stata anche indirizzata dai miei cromosomi italiani».

Com’è nata la sua inclinazione per la fotografia? Quale prima esperienza le ha fatto scattare l’impulso?
G. T.: «Di nuovo la responsabilità è della mamma italiana, che mi ha regalato la sua macchina fotografica, una buona fotocamera – una Agfa a telemetro – con la quale ho iniziato a scattare più seriamente delle foto. Poi ho partecipato a un corso universitario di fotografia, dove insegnava – al suo primo anno di carriera – un ebreo ungherese di nome Michael Simon, che mi ha ispirato con il suo metodo di fotografia di scatto soggettivo libero. A lui piacevano molto i miei lavori e siamo rimasti in contatto. In realtà, mi ero trasferito a Todi con l’idea di scrivere, attività che già portavo avanti per alcune riviste d’arte, ma era molto difficile e richiedeva un lavoro lungo e meticoloso. La svolta è arrivata con la nascita del primo figlio, che ha trasformato il mio studio nella sua cameretta e mi ha fatto cambiare definitivamente direzione, virando verso la fotografia. Di ciò, oltre che dei risultati, sono contento perché se il lavoro del fotografo è di per sé una professione solitaria, scrivere lo sarebbe stato ancora di più».

Secondo lei si può interpretare “l’occhio fotografico” come percorso interiore, intimo del fotografo. Un terzo occhio che fa percepire oltre, il metafisico appunto: un talento personale di pochi grandi maestri d’arte? Qualcosa che non si può coltivare?
G. T.: «La mia preferenza è di lasciarsi vagare. Probabilmente, dopo i 16 anni trascorsi con i Fratelli Alinari, dove le committenze erano una dietro l’altra, mi erano rimasti dentro l’esperienza dell’università e l’insegnamento di Michael Simon – il quale, alla prima uscita fotografica, ci aveva raccomandato di coprire il mirino della macchina fotografica e di puntare a ciò che ci interessava. Questa modalità ci distinse fin da subito – senza aver sviluppato nessuno stile fotografico – rendendo già percepibile la personalità di ognuno di noi. Ricordo di aver fotografato tante barriere – muri e recinzioni – dalle quali sono ancora attratto, tanto che nella prossima mostra dedicata a Pistoia (Il colore del caso, Palazzo Fabbroni dal 29 novembre, n.d.g.), ci sarà una precisa sezione dedicata a tale soggetto. Per me, questo è il modo più creativo di fotografare, anche se molto intimo ed egoistico, e penso che ci sia spazio anche per questo tipo di immagini accanto al rispettabilissimo fotogiornalismo o alla fotografia impegnata. Ho scelto questo genere di fotografia perché lascia molto più spazio all’espressione creativa rispetto, ad esempio, al fotogiornalismo, dove si è obbligatoriamente focalizzati sul soggetto e si ha meno posto per le visioni personali».

Anche lei quando insegna chiede ai suoi allievi di fotografare con il mirino chiuso della fotocamera, con inquadratura istintiva: un metodo che trovo molto interessante ma che raramente si riscontra nei corsi di fotografia. Una fotografia solo emozionale, quindi?
G. T.: «Questo non è un modo per realizzare belle fotografie ma un metodo per cominciare a pensare a quello che hai dentro, a ciò che ti interessa fotografare. Però, ancora più importante, è la lettura di libri, e qui torno al mio primo amore – la letteratura – perché, secondo me, chi non ha un minimo di bagaglio culturale letterario e artistico, non dico che non possa fare il fotografo, ma penso che averlo sia una ricchezza utile a migliorare la sensibilità. Quando ho un po’ di tempo, e sono di passaggio in una città che non conosco, non vado a vedere mostre di fotografia, bensì di pittura o di scultura».

Lei produce i suoi scatti con un banco ottico – e i risultati sono evidenti. Eppure, con l’avvento del digitale, il mondo dell’immagine è cambiato e chi è del mestiere si è dovuto adeguare. La fruizione dell’immagine è in tempo reale – senza più il fascino dell’attesa della fotografia analogica – e si rincorre il secondo per pubblicare una foto, senza poter metabolizzare l’evento o rifletterci su. Le sue foto ritraggono principalmente città e ambienti statici o con tempi di trasformazione molto lenti, che non rientrano in questo vortice globalizzato: come vede il mondo attuale dell’immagine? Lei ha aggirato l’ostacolo rispettando i tempi del percorso fotografico analogico?  
G. T.: «Tutto quello che mi ha appena chiesto è riconducibile a un racconto di Italo Calvino – contenuto in Gli amori difficili – che s’intitola L’avventura del fotografo. Un racconto bellissimo che comprende l’intera domanda che mi ha posto sull’attesa e il desiderio di vedere l’immagine. Il digitale è stata una rivoluzione che mi ha fatto un po’ arrabbiare perché il mercato ci ha costretti a seguirlo, situazione che non è avvenuta, per esempio, con i pittori – che continuano a lavorare come hanno sempre fatto. Le aziende produttrici sono andate dietro al mercato ed è sempre più difficile trovare le pellicole piane 13×18 che uso normalmente. Sono costretto ad acquistarle direttamente dalla casa-madre, Kodak, negli Stati Uniti, con ordinativi ingenti e grazie anche al fotografo tedesco Thomas Struth, che continua a utilizzare gli stessi materiali – altrimenti non saprei come fare. Il digitale, d’altronde, è uno strumento utilissimo se usato in maniera propria, e ormai vi è poca differenza tra i due procedimenti – anche se a stirare troppo le immagini, i pixel si rovinano e la nitidezza si deteriora. Quello che cambia davvero è il processo creativo in sé: a me piace l’idea di dover correggere le differenze – per esempio, le linee cadenti o spostare la prospettiva – con le ottiche, invece che al computer. Un altro fattore che, negli ultimi anni, ha peggiorato il processo creativo è l’uso degli obiettivi zoom che, in quanto decisamente migliorati, hanno impigrito il fotografo. La cosa più importante, a mio avviso, nell’atto creativo di fotografare è dove ci si posiziona con la propria fotocamera: con lo zoom non si ha questo pensiero, si gira l’obiettivo e – zac – la foto è fatta. Questo, però, cambia totalmente il rapporto tra il soggetto e lo sfondo: una nozione che molti fotografi non possiedono, giudicata ormai quasi superflua e che io ritengo, al contrario, la più importante. Per quanto riguarda l’attesa dell’immagine, ossia il fatto di non vederla subito nel display della fotocamera digitale ma di dover attendere talvolta anche dieci giorni prima che il laboratorio di Milano (ormai l’unico in Italia) mi restituisca il lavoro, sia un fattore positivo, di accrescimento per me o per qualsiasi fotografo – che ha l’occasione di continuare a pensare ai propri scatti e al concetto che voleva esprimere. L’attesa è un modo per continuare a vivere la fotografia anche dopo lo scatto, una ricchezza ulteriore che permette di pensare profondamente all’immagine. Una sorta di maturazione dell’immagine stessa».

Dal banco ottico allo scatto con il cellulare: le sue impressioni.
G. T.: «Non voglio dire assolutamente nulla contro la tecnologia e con il cellulare si possono scattare immagini bellissime anche a livello qualitativo. Il discorso rimane lo stesso: se è per un selfie, il mondo è pieno di selfie e di sfrenato narcisismo e non ho nulla in contrario, sebbene ci siano troppe immagini in giro che non servono a nulla: ne siamo quasi soffocati. Scattare con il digitale è fin troppo facile e non si pensa abbastanza a ciò che si sta facendo: questa è la vera differenza. D’altro canto, il digitale è anche la democratizzazione dell’atto di fotografare, essendo a portata di tutti: una cosa stupenda».

Lei è tra i fotografi più apprezzati a livello internazionale, ma credo che l’aver iniziato prima dell’arrivo della fotografia digitale – che, comunque, non si vuole demonizzare – sia senz’altro un elemento a suo favore. Oltre al talento serve un po’ di fortuna per raggiungere l’Olimpo dell’arte fotografica?
G. T.: «Nella città del Vernacoliere mi sento libero di dire che il “culo” è fondamentale.  Anche prima di nascere è una questione di fortuna e del caso per come i cromosomi dei genitori si combinano per produrci! Quelli che dicono: «Bella fotografia, ma ha avuto solo culo», non hanno capito cos’è la fotografia. La fotografia vive di questo ed è tra gli elementi più affascinanti che possediamo – da accogliere e abbracciare. Tutta la vita è una questione di fortuna, il caso, di come s’innescano le cose: perché non sfruttarla? C’è una frase di Larry Fink (fotografo statunitense di fama mondiale, n.d.g.) che mi piace molto citare: “If you don’t take a chance, you don’t get the chance” (Se non cogli l’occasione, non hai l’occasione, t.d.g.). Lei ha toccato un elemento basilare della mia fotografia».

Cosa consiglierebbe a un giovane che volesse intraprendere la professione di fotografo, in questo villaggio globale sommerso di immagini, dove chiunque sui Social (talvolta anche con buona qualità) si firma photographer?
G. T.: «Io mi sento già in imbarazzo quando insegno un corso di banco ottico, uno strumento da dinosauri che appassiona molti giovani, sebbene sia costoso, e che non consiglio a nessuno. Sono un fotografo terribilmente selettivo e faccio poche foto, ma se uno vuole la stessa qualità dovrà avere un corredo digitale molto avanzato, quindi impegnarsi anche economicamente. La carriera fotografica è diventata sempre più difficile negli anni: tutti si definiscono fotografi, tutti fanno fotografia, e la gente – questo è il grande problema – sempre meno riesce a distinguere la qualità. Vedo addirittura molti giornali e riviste che pubblicano foto con le linee cadenti delle architetture, senza alcun interesse a correggere la prospettiva – sebbene con il digitale sia una sciocchezza. Lo trovo indecente. I fotografi che lavorano con senso di responsabilità, amore e cura hanno, a volte, meno spazio: un fatto triste. Penso che sarà sempre più difficile vivere di questo mestiere».

La mostra continua:
Museo della Città
piazza del Luogo Pio – Livorno
fino a lunedì 6 gennaio 2020
orari: da martedì a domenica, dalle ore 10.00 alle 19.00

Luci di Livorno
mostra di fotografie di George Tatge
a cura di Stefania Freddanni
promossa da Fondazione Livorno
organizzata da Fondazione Livorno – Arte e Cultura