Pensare per immagini

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Dopo il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid e il Museum Folkwang di Essen, la mostra consacrata alla produzione degli anni Ottanta di Luigi Ghirri giunge al Jeu de Paume di Parigi. Fino al 2 giugno sarà possibile visitare la splendida mostra Cartes et Territoires, prima retrospettiva dedicata al fotografo modenese fuori dai confini nazionali

Nel 1979 si tiene, presso il Palazzo della Pilotta di Parma, una grande esposizione delle opere di Luigi Ghirri. Curata da Arturo Carlo Quintavalle e da Massimo Mussini, la mostra si intitola “Vera Fotografia” e presenta quattordici sezioni ognuna delle quali introdotta da un breve testo scritto dallo stesso artista. Esattamente quarant’anni più tardi, il Jeu de Paume di Parigi ripropone quel momento per permettere una riflessione – finalmente europea – sull’opera del fotografo di Scandiano. La mostra giunge a Parigi dopo aver fatto tappa presso il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid e il Museum Folkwang di Essen e rappresenta la prima grande retrospettiva dell’artista fuori dai confini nazionali.

Non si tratta qui però della semplice ripetizione di un evento oramai sbiadito dal tempo, della riesumazione di un preciso istante dell’attività espositiva di Ghirri in una logica di ripetizione di un’origine che molti non hanno potuto conoscere. Non si tratta, in altre parole, di un’adesione totale ad un passato che non è possibile restituire. Quello che Cartes et territoires cerca di suggerire è lo scarto che agisce tra la mostra del 1979 e quella odierna accolta in dieci sale del museo parigino. Si tratta di uno scarto che agisce proprio nel lasso di tempo che intercorre tra quel momento e la nostra attualità. Quel tempo trascorso si deposita in questo modo nello sguardo che indirizziamo verso quei cliché, sulle opere che si interrompono, come un muro invalicabile, a quella data: 1979. Cosa significa ciò? Che noi non possiamo fare esperienza di quella attualità, di quella riproposizione immediata del tempo che aveva luogo nelle sale della Pilotta. Se la data del 1979 si posiziona come il terminus ante quem attraverso il quale si rende possibile lo sviluppo dell’esposizione, sondare le sale del Jeu de Paume significa, per il visitatore, accogliere il lasso di tempo che ci separa da quelle opere, non solamente per colmarlo riempiendolo di senso – e veicolando in questo modo un’azione di liquidazione temporale – ma, al contrario, al fine di cogliere ciò che manca, ciò che, di quell’esperienza impossibile di condivisione, resta depositato. Sintomi impersonali che si mantengono malgré tout, che insistono nella loro non riconducibilità ad un’economia circolare, ad un riutilizzo significante.

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Luigi Ghirri, Lido di spina, 1974 © Succession Luigi Ghirri

 

Le fotografie di Ghirri si mantengono separate da noi, ad una distanza che ogni tentativo di azzeramento non potrebbe che mancare il proprio obiettivo. Restituite così a loro stesse, le fotografie iniziano a parlarci, ad indirizzare il loro sguardo verso di noi, incontrandolo e creando l’occasione. Quest’ultima si può verificare solamente dopo aver lasciato una fotografia dietro di noi, permettendo che lo scorrere temporale provochi l’incontro. Infatti noi non incontriamo una fotografia nel momento – che ne rappresenti il primo incontro o l’ennesimo ritorno su di essa – in cui la guardiamo, ma più tardi, in un dopo temporale che agisce in contropiede, tanto nei confronti del senso cronologico, quanto rispetto al recupero à rebours della memoria. Il punctum barthesiano non risulta dallo studium del cliché. Esso lavora il tempo proprio come la memoria involontaria di Proust: presentandosi attraverso un incontro inaspettato, là dove mai avremmo potuto pensare di coglierlo. Vi è dunque un ritorno che potremmo definire come “ossessivo”, come se una fotografia ci colpisse guardandone un’altra. Solamente una volta abbandonata la pratica scopica dell’analisi e volgendo lo sguardo altrove, qualcosa del nostro passato immediato ritorna a stregarci, per la prima volta.

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Luigi Ghirri, Salzburg, 1977, Collection privée. Courtesy Matthew Marks Gallery © Succession Luigi Ghirri

 

La scelta cronologica dell’esposizione curata da James Lingwood sembra essere stata concepita per creare questo tipo di incontro, facendo scaturire un’occasione allucinatoria, dove la correlazione tra noi e le immagini si verifica non attraverso linee dirette, ma per zig zag deleuziani. Proprio questo movimento della linea zigzagante verrà indicata dallo stesso Ghirri, in un dialogo con Emanuela Teatini, come la modalità peculiare della fotografia, poiché, se può essere equiparata ad un viaggio, essa segue un itinerario di deviazioni e di ritorni, di improvvisazioni e di casualità.[1]

Ghirri indaga il reale attraverso quella modalità che Goethe definì come una “delicata empiria” e lo fa ritagliando dettagli raccolti nei luoghi di vita e di lavoro. Vi è quindi, fin dall’inizio, una sorta di immediatezza che si installa nello sguardo di Ghirri, quella di un indagatore che, silenziosamente e senza proferire alcun tipo di giudizio, mostra frammenti del proprio ambiente, della propria città, Modena. Il fotografo si ritrova, come per caso, a sondare l’immediatezza della propria flânerie dopo averla misurata scientificamente grazie alla professione di geometra. Abbandonando il suo lavoro “ufficiale”, Ghirri non si sbarazza dell’abitudine alla misura. Il termine qui va assunto nella doppia significazione, quella di una scienza della valutazione di una grandezza e quella di un fare ponderato. Queste due caratteristiche sono immediatamente percepibili avvicinando la sua opera: scientifica e discreta, volta alla conoscenza e al tentativo di indagare i confini e sempre al di qua d’ogni volontà di insistenza. Testimoni di questa modalità sono le opere della serie Atlante del 1973, lavoro che segna il passaggio vitale dalla certezza di un lavoro fisso alla totale consacrazione alla fotografia. Rinunciando a tracciare diagrammi e piani, Ghirri decide di impugnare una macchina con un obiettivo di macrofotografia per tuffarsi nelle carte di un atlante. I dettagli di deserti, oceani, catene montuose, le linee dei meridiani e delle frontiere balzano improvvisamente all’occhio come dei segni minimi che necessitano di un incontro. La riconoscibilità di questi piccoli dettagli di territori cartografati rimane universale ma, per la prima volta, questi emergono dalla comprensione codificata per ritrovare la superficie di una lettura nuova e attenta. La misura (alcune fotografie scattate alle installazioni dell’amico Giuliano Della Casa saranno esposte in una mostra del 1972 a Palazzo Diamanti intitolata giustamente “Misura”) accompagna il fare artistico di Ghirri anche nella toccante serie ∞ Infinito del 1974, composta da 365 fotogrammi raffiguranti una porzione di cielo colta una volta per giorno per un anno intero.

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Luigi Ghirri, Atlante, 1976, Bibliothèque nationale de France © Succession Luigi Ghirri

 

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Luigi Ghirri, ∞ Infinito, 1974 © Succession Luigi Ghirri

 

Ghirri ha saputo ridonare alle cose la loro patina colorata, quell’azzurra lontananza che, come affermava Benjamin, persino i sogni avevano perduto. Il fotografo ha saputo dissipare la coltre grigia depositata sulle cose e sui sogni. Guardando una fotografia di Ghirri siamo immediatamente conquistati da quell’aura onirica e delicata che sembra essersi depositata sugli oggetti. Questa azione di riscoperta passa attraverso un’estetica del kitsch, cioè del «lato che la cosa volge al sogno».[2] Le scelte di Ghirri si accostano a questa estetica, permettendoci di ricevere «la forza dello scomparso mondo delle cose».[3] Ne è una dimostrazione il ciclo Kodachrome che genererà in seguito quello straordinario e particolarissimo oggetto bibliografico eponimo. Una serie di cliché che giustappongono paesaggi e abitazioni, vedute e particolari, vere e false montagne, cartoline e riproduzioni in scala d’ogni genere. Ma in esse non vi è mai una chiusura, un circolo che si serra offrendo allo spettatore una struttura autoreggente. Egli lascia sempre dei punti di fuga e degli itinerari di evasione[4] che insistono e che si proiettano al di là dell’inquadratura che l’artista ha selezionato. In particolar modo, essi insistono in quello spazio che Ghirri ha definito «il visibile della cancellazione»,[5] là dove l’immagine non è più visibile ma porta con sé il riverbero di ciò che risulta all’interno della stessa. Come avviene con le immagini di Bill Viola nelle installazioni multiple, dove il fuori campo del video viene riverberato dalla presenza ossessiva della scomparsa dei corpi. Ghirri ha dimostrato, negli scritti e nel suo lavoro fotografico, una chiara insofferenza verso la volontà anestetizzante della pubblicità e della società. Kodachrome e Paesaggi di cartone rappresentano dei tentativi di sollevamento di questa anestesia attraverso “fotografie di fotografie”. Intime, volte alla cerchia famigliare o spersonalizzate per essere così utilizzate come soggetti “tipici”, le immagini colte da Ghirri vengono strappate al circolo economico per ritrovare una materialità che forse non avevano mai sperimentato in precedenza.

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Luigi Ghirri, Modena, 1971, Courtesy Matthew Marks Gallery © Succession Luigi Ghirri

 

Il cominciamento del fare artistico di Luigi Ghirri è un chiaro partito preso: posizionarsi in prossimità del fotografo amatoriale, “della domenica”. A partire da questo postulato, Ghirri si muove con una libertà assoluta rispetto ai canoni estetici della propria epoca inerenti il linguaggio colto, assumendo, in maniera totale, il respiro rumoroso del colore. Guardiamo la serie Il Paese dei balocchi. La fotografia e i luna park mostrano immediatamente una sorprendente similarità: entrambi mettono al centro della loro esistenza l’istante del riposo e delle vacanze. Ciò che permette loro una perfetta sovrapposizione è il doppio, la creazione di uno spazio onirico all’interno del fluire della realtà: è la liberazione del magico attraverso il simulacro. L’installarsi di un discorso altro rispetto alla realtà può avvenire solamente grazie alla presenza del simulacro. Ne Il Paese dei balocchi il simulacro è rappresentato dal dettaglio di ciò che viene solitamente celato: la machinerie della struttura ludica infantile. Il retro della giostra, il frammento del decoro bidimensionale, la vita nascosta dei dettagli dove i sogni dei bambini si depositano per incagliarsi durevolmente. Le fotografie sembrano trasformarsi in pitture, dipinti kitsch e postmoderni. Ma in questa traslazione che il nostro occhio effettua, noi ritroviamo un errore di valutazione nel quale incorriamo proprio grazie alla specificità della fotografia: la sua trasparenza. Nei decori di un parco di attrazioni di Modena o nelle immagini del museo di storia naturale di Salisburgo, il nostro occhio è tradito dalla trasparenza del mezzo fotografico a tal punto che ci ritroviamo ad aderire completamente al soggetto fotografato. L’effetto della duplicazione, della rappresentazione di un’immagine pone la fotografia nel regno dell’arte del simulacro. Ciò non deve però semplicemente essere inteso come un muoversi all’interno di un mondo altro, un al di là della visione che duplica il nostro mondo mantenendo la stessa identica struttura. Il mondo della fotografia è il mondo effettivo nel quale non possiamo che trovarci inglobati. Solo in questo modo possiamo comprendere quella frase di Ghirri che ci accompagna per tutta la mostra: «Nous vivons d’abord dans les images». Ciò, però, non significa crollare all’interno di esse. Come abbiamo detto sopra, le sue fotografie si mantengono, in qualche modo, ad una certa distanza, e questo avviene in particolar modo grazie ai punti di fuga che costellano le immagini di Ghirri. Anche nelle fotografie che sembrano ritagliare una porzione di mondo fittizio per restituirlo a noi, qualcosa dell’ordine della fuga si mantiene all’interno del lavoro. La dimostrazione più chiara, nell’ironia dolce e delicata, è forse rappresentata dalla serie In scala, del 1977-78 che chiude la mostra parigina con estrema eleganza. Gli scatti mostrano piazze, monumenti, paesaggi naturali del Bel Paese. Icone che però mostrano il loro lato kitsch, un’azzurrina lontananza che non rimane limitata ai cieli delle immagini, ma che si riverbera sulle superfici degli artefatti e sul candore delle nevi posticce.
Il mondo delle immagini di Ghirri è il nostro mondo. E questo è il suo più grande regalo: avercelo restituito insieme alla sua azzurra lontananza.

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Luigi Ghirri, Rimini, 1977 © Succession Luigi Ghirri

 

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Luigi Ghirri, Rimini, 1977 © Succession Luigi Ghirri

 

[1] Luigi Ghirri, Un canto della terra, in Id., Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per un’autobiografia, a cura di Paolo Costantini e Giovanni Chiaramonte, SEI, Torino 1977, p.297.
[2] Walter Benjamin, Kitsch onirico, in Id., Strada a senso unico. Scritti 1926-1927, a cura di Giorgio Agamben, Einaudi, Torino 1983, p.317.
[3] Ibidem, p.318.
[4] Luigi Ghirri, Luce, inquadratura e cancellazione del mondo esterno, in Id., Lezioni di fotografia, a cura di Giulio Bizzarri e Paolo Barbaro, Quodlibet, Macerata 2010, p.92.
[5] Luigi Ghirri, Prefazione, in Id., Kodachrome, Punto e Virgola, Modena 1978, p.12.

Il Jeu de Paume presenta:
Luigi Ghirri. Cartes et territoires
fino al 2 giugno 2019 presso il Jeu de Paume di Parigi
mostra e catalogo a cura di James Lingwood
esposizione organizzata dal Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid, in collaborazione con il Jeu de Paume e il Museum Folkwang di Essen
con il patrocinio dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi
con la partecipazione straordinaria della Bibliothèque nationale de France e del Centro Studi e Archivio della Communicazione – Università degli Studi di Parma.