Ritratti d’autore

Il riflesso lunare proiettato dall’azione della curatrice Arianna Desideri in Curatela offresi all’interno della variegata e scoppiettante rassegna ISIT.exhi#001, curata da Federica di Pietrantonio, Andrea Frosolini e Alessandra Cecchini nei locali di Spazio In Situ, irradia previsioni e profezie future e prossime in quello che è un processo di divinazione sperimentale teso alla ricerca di un orizzonte di senso più ampio.

Il tessuto cangiante della tenda, al cui interno si alternano frammenti di specchi, arboree visioni, azioni evocative, immagini frammentante, ambienti alieni e assemblaggi distopici ad opera di otto artisti, allude inevitabilmente alla superficie argentea della Luna e alla dimensione trascendentale dello spirituale che ad essa si lega, immettendo coloro che vi si imbattono nella maglie di un regno da sogno carico di fascino e mistero. Trasformata in una moderna Sailor Moon paladina dell’arte e combattente indovina, Arianna Desideri svela i segreti celati nella tenebra all’aldilà della linea dell’orizzonte, portando alla scoperta di un immaginario unico e altamente suggestivo che si carica di significati criptici come all’interno di un sogno meraviglioso. Abbiamo chiesto agli artisti Jacopo Ernesto Gasparrini, Sofia Tocca, Sofia Ricciardi, Leonardo Avesani, Mitikafe, zzzzz_project, Hardchitepture di raccontare i retroscena della collaborazione intrapresa con la curatrice Arianna Desideri.


JACOPO ERNESTO GASPARRINI

Imprevisto e Destino: come si caratterizza lo spazio che condividono queste due forze, e come interagiscono all’interno della tua poetica artistica?
Qual è stato un aspetto del tutto imprevisto della collaborazione con la curatrice Arianna Desideri?

Jacopo Ernesto Gasparrini: «La mia ricerca scaturisce dalla mia volontà di disinnescare la narrativa eroica tipica del contesto socio-economico in cui viviamo. Sin dai tempi delle prime narrazioni del Self Made Man, l’individuo, il lavoratore è stato progressivamente educato a creare una auto-narrazione basata su una competizione sistematica in realtà inesistente. “Uno su mille ce la fa”: questo genere di Mantra ci viene ripetuto sin dai nostri primi vagiti e riproposto regolarmente in ogni momento della nostra vita, in ogni tipo di contesto. Non è forse nostro obbligo morale fare carriera nel nostro ambito lavorativo? Non siamo forzati ad adeguarci a standard estetici sempre mutevoli? In questo contesto culturale concetti romantici e ambigui come il “Destino” trovano terreno fertile. Parlo del destino dei film Disney, quello che attende col*i che con la forza di volontà supera gli imprevisti e realizza i suoi sogni. Per me il trofeo è il totem di questo tipo di cultura. È diventato l’oggetto assoluto, metafora della nostra costante competizione finta, controllata, costruita in modo da poter sistematicamente vincere per far si che la nostra pericolante struttura sociale fortemente individualista possa miracolosamente stare in piedi. Nell’opera Complimenti! (140 Years of Bad Luck) ho reiterato il significante del trofeo cercando di decostruirne il valore simbolico. Un trofeo composto da specchi rotti non è soltanto pericoloso, ma accumula anche la “sfortuna” indotta dall’atto di rompere venti specchi. Un trofeo non soltanto tagliente, che ferisce, ma che si intromette nel tuo percorso verso il successo. Il trofeo, inoltre, è stato installato nella tenda ideata da Arianna Desideri. Sfruttando la sua conformazione, ho nascosto la parte superiore all’interno del tendaggio: il corpo ornato dai manici. Lo spettatore, mosso da curiosità, è stato costretto ad affacciarsi nella tenda ricevendo in cambio la conoscenza totale della forma, che appunto diventa un premio fittizio per il suo sforzo. Una presa in giro. Il trofeo di specchi rotti assume all’interno dello spazio espositivo un’aura negativa, pericolosa e, soprattutto, iettatrice.

La collaborazione con Arianna Desideri nasce nella maniera più imprevista possibile: ci siamo conosciuti su Tinder. È stato l’algoritmo a veicolarci, quindi parlare di casualità sarebbe decisamente forzato. Nonostante questo, la conoscenza di Arianna non era qualcosa che avrei sperato di ottenere in questo modo. Ci siamo incontrati di persona in un piccolo bar a Nord di Roma e abbiamo parlato per ore dei nostri punti di vista e dei nostri progetti. Lei è rimasta colpita dalla mia ricerca e mi ha chiesto di fare l’application per il suo bando, quello che poi mi avrebbe portato a esporre presso lo Spazio In Situ. Un ulteriore aspetto imprevisto è stato sicuramente rappresentato dalla tenda. L’intento di Arianna era quello di creare una nicchia, un ambiente raccolto all’intero dello spazio in cui gli artisti da lei selezionati si potessero trovare a loro agio. Indubbiamente confrontarsi con un contesto del genere è stato al tempo stesso stimolante e impegnativo. Il simbolo della tenda richiama non solo un artefatto infantile, un rifugio in cui nascondersi agli occhi indiscreti dei grandi, ma anche le quinte del sipario, che si associano anche a un aspetto performativo non certo estraneo al concetto di premio e di motivazione estrinseca. All’interno del sipario della tenda il trofeo è potuto andare in scena, esasperando tutta la sua essenza fittizia e tragicomica».


SOFIA TOCCA

Natura e Artificio. Nella tua opera entrano in simbiosi le dimensioni antitetiche di ambiente e costruzione. Come artista come vivi l’organicismo sintetico sprigionato da questa mescolanza?
Nell’incontro con la curatrice Arianna Desideri qual è stato il primo punto di contatto che vi ha fatto sentire anime affini?

Sofia Tocca: «Nel lavoro proposto per la mostra ISIT.exhi#001 ho tentato di mettere in dialogo la forma scultorea con l’espressione fotografica. Allo scultoreo lego sempre un fattore terreno, pragmatico, al gesto fotografico un movimento d’astrazione. La resa di Untitled [experience as an abstraction] è un tentativo di ibridazione tra i due portamenti, in cui ho cercato di tradurre un’esperienza e contemporaneamente astrarla. Io e la curatrice Arianna Desideri abbiamo camminato a lungo, esplorando le zone intorno a Spazio in situ, abbiamo compiuto una deriva geografica assieme. Mentre lei scriveva, io fotografavo. E mentre lei scriveva e io fotografavo, camminavamo come a scolpire il terreno. Il corpo che vive l’esperienza è presupposto fondamentale in tutti i miei lavori, il gesto fotografico richiede spostamento, ricerca e sforzo fisico, mentre la scultura incarna il corpo e il suo desiderio, entrando in relazione con lo spazio.

Nella domanda mi ha colpito l’uso del termine mescolanza. Se pensiamo l’atmosfera come spazio della mescolanza superiamo l’idea di composizione. Probabilmente sono alla ricerca di una complicità. L’installazione si compone di un’immagine processata: ripetuta, allungata e stretchata in postproduzione, è stata poi stampata su tessuto dando luogo ad una mescolanza di elementi. Ho tentato di assemblare il lavoro adottando una postura interna al problema, l’organicismo sintetico credo sia scaturito dalla messa in contraddizione di alcune categorie e dalla ricerca di un ibrido tra naturale e artificiale».


SOFIA RICCIARDI

Attesa e protezione. Qual è il segreto che celano nella loro interdipendenza e come si coniugano nella relazione tra pratica performativa e installativa?
Qual è stato un momento segreto che avete condiviso con la curatrice Desideri nel corso della vostra collaborazione?

Sofia Ricciardi: «Siamo due esseri viventi, io e Igor, appartenenti a due mondi che comunicano in lingua diversa. Abitiamo lo stesso ambiente e il tempo scorre nell’attendere qualcosa che succederà senza avere certezza. La nostra comunicazione è sospesa al contrario della nostra relazione, il nostro collegamento esiste anche senza toccarci. La situazione non è definita, né definitiva, siamo protetti dal desiderio di restare insieme, ad attendere, e il nostro stato d’animo è speranzoso, a volte affranto.

Non penso ci siano stati momenti segreti, solo momenti. Arianna è una persona in gamba, professionale e completamente immersa nel mondo dell’arte, la sua arte. Sono rimasta colpita dalla sua tenacia e dalla sua capacità di gestire un grande lavoro come Curatela Offresi, forse qualche momento segreto lo hanno avuto lei e il morbido Igor perché ho notato un grande amore tra i due!»


LEONARDO AVESANI

Desideri e Sogni. Qual è il legame che unisce evanescenza e poesia in quella che si manifesta come  un’intima relazione di contatto?
Nel titolo dell’opera il cognome della curatrice Desideri si trasforma in détournenment, qual è stata la chiave che ha permesso la trasmutazione simbolica e quali sono stati i desideri che avete condiviso nel corso della performance?

Leonardo Avesani: «L’aria, il soffio. Questo è il significato profondo di parole come anima e spirito. Un qualcosa di leggerissimo, di invisibile, che però c’è, si fa sentire, e la sua presenza fa intuire dimensioni altre, così come il vento viene sempre da altrove. La poesia spesso possiede della sospensione, della leggerezza, e non lo dico in senso negativo. Solitamente, essa cerca di esprimere a parole qualcosa di indicibile, pertanto è difficile spiegarla, riuscire ad aggiungere qualcosa a quanto già dice. Direi che l’evanescenza è intrinseca nella poesia. A volte si ha la sensazione di aver capito, ma non si riesce a dire cosa. A volte si fa fatica persino a ricordare l’intuizione avuta un istante prima. Penso però che l’importante sia imparare sempre di più a fare queste esperienze, a stupirsi, a farsi sorprendere, piuttosto che ricordarsi i concetti compresi in quei momenti. Ciò che poi non deve mancare è l’azione, la messa in pratica, e difatti soffiare è uno sforzo che richiede impegno e concentrazione.

Arianna Desideri nel testo di Curatela offresi parlava di desiderio, di tenda come fortino di lenzuola in cui giocare, bisbigliare fiabe, parlava di ibridare i ruoli… Mi piaceva così tanto ciò che aveva scritto e l’immaginario da lei creato che sono finito con il seguire praticamente alla lettera i suoi spunti. Da lì mi è nata l’idea di coinvolgerla nel lavoro rendendola coautrice e di parlare di desideri, essendo questo un tema che mi/ci sta molto a cuore. Ho avuto la sensazione di avere già pronti tutti gli elementi e di dover solo cercare di combinarli insieme per comunicare il mio/nostro pensiero. Penso che questo succeda per qualsiasi lavoro, però stavolta è stato particolare, poiché è come se mi fossero stati forniti dall’esterno belli e pronti tutti i componenti e questi si incastrassero alla perfezione. Alla fine della performance Arianna mi ha confessato di essersi emozionata ad una pagina in particolare, quella in cui è presente, tra gli altri, il desiderio “Io voglio perdonarmi”».


MITIFAKE

Telepresenze e Specchi. Nella dinamica dell’incastro duplicativo, attraverso il mezzo digitale, il labirinto visivo cosa ha rivelato il voyerismo quell’immagine cosa rincorre?
Quali sono state le conseguenze del cortocircuito indotto dalla riflessione speculare tra la tua immagine di artista e quella della curatrice Desideri?

Mitifake: «Il progetto è strutturato su tre luoghi: il mio studio/casa, lo spazio di Spazio In Situ e il luogo virtuale che i due spazi costruiscono tra loro. Un quarto spazio eventuale è la tenda. La frammentazione dell’identità non riguarda solo la mia immagine. A frammentarsi sono più immagini: quella del dispositivo stesso, dello spazio del mio studio, dello spazio della mostra, dello spazio fisico, del desktop, dello spazio virtuale di Skype, della tenda. In questo modo l’identità fluttua spostandosi da un luogo all’altro, da un dispositivo ad un altro, dal fisico al virtuale e si duplica, creando più possibilità della stessa immagine: non più qualcosa statico ma fluido, aperto a più varianti, tutte ugualmente valide.

Solitamente lavoro tramite autoscatti e in solitudine. Questa volta ho utilizzato l’impostazione solita dell’autoscatto con l’aggiunta di un altro spazio fisico che non mi appartiene e con la presenza di Arianna che, in realtà, è stata la vera fotografa dell’azione. Sin dall’inizio mi piaceva l’idea di coinvolgere la curatrice all’interno dell’azione e farla diventare una sorta di prolungamento dell’artista.  Ho trovato curioso questo aspetto dell’autoscatto che in parte è presente, in parte viene a mancare: le fotografie principali, scattate tramite Skype, hanno le sembianze dei miei tipici autoscatti ma in realtà sono nate dall’incontro tra me e la curatrice, ed è stata la curatrice stessa a diventare fotografa e ad aiutarmi nel mettere in atto questa specie di finzione».


ZZZZZ_PROJECT

Incubi e Sangue. All’interno della spazialità aliena della tenda quale veste assume il perturbante e che vincoli si stringono tra l’elemento digitale e quello orrorifico?
Quali sono state le paure e le preoccupazioni che insieme alla curatrice Desideri avete vissuto durante l’allestimento dell’installazione?

zzzzz_project: «La paura è una sensazione estremamente sottovalutata e ignorata al giorno d’oggi, nonostante essa ricopra da sempre un ruolo fondamentale e centrale all’interno delle società, guidando le nostre scelte, e confermando i nostri ideali e standard sociali. In veste di Designer che cerca di guardare alla propria disciplina con un certo senso critico mi chiedo dunque: come mai viviamo in ambienti così confortevoli? Chi ha stabilito che il Design debba sempre essere “ergonomico” e “user-friendly”? Cosa succederebbe se provassimo a considerare un paradigma di vita diverso, basato sulle sensazioni di paura, terrore, angoscia e orrore? Da questa riflessione è partita l’idea di Domestic Horrorscapes, un’installazione spaziale che ribalta il concetto di tenda come luogo “domestico, sicuro e addomesticato” per trasformarla in un luogo dell’incubo. L’elemento perturbante, alienato dalle reali situazioni in cui normalmente si verifica, inserito in questo nuovo contesto scenico, cerca di attivare un processo di esorcizzazione delle nostre stesse esistenze. Prendendo l’oscuro e il macabro come ipotesi di quotidianità, di normalità, e vivendo situazioni angoscianti all’interno dello spazio domestico, le esperienze esterne ad esso diverranno automaticamente molto meno preoccupanti. è un po’ l’effetto che cerchiamo di ottenere guardando film dell’orrore sul grande schermo o giocando a videogiochi truculenti: sono processi che ci consentono di esternare le nostre tensioni e pulsioni più nascoste per far sì che non si manifestino nella vita reale. Dal momento che il panorama digitale è sostanzialmente un paesaggio “glitterato” e censurato, regolamentato forse ancor più del mondo esterno, ho scelto di progettare Domestic Horrorscapes come una tipologia di spazio di resistenza privata, dove potersi esprimere con un linguaggio svincolato dai dettami del buon gusto e del decoro (guarda caso l’orrore è sempre stato censurato o ignorato dalle società, un po’ come il sesso e il porno…). Paradossalmente però, ora che ci penso, una delle nostre più grandi angosce da quando ci alziamo a quando andiamo a dormire è proprio quella di non poter accedere al mondo digitale. Alla fine forse non sono poi così diversi…

Sicuramente la mia prima paura è stata quella di scriverle, essendo questa la mia prima vera collaborazione con una curatrice. Ma mi sono fatto coraggio e ho cercato di essere me stesso al 100%, forse anche di più in alcuni casi, portando avanti questo esercizio fino alla fine di questo percorso e devo dire che ha dato vita a dei risultati magici. Un’altra preoccupazione – penso per entrambi – è stata causata dalla distanza, il fatto che non fossi a Roma a vedere lo spazio e la tenda – che tra l’altro ancora non esisteva – ma anche qui (buona programmazione o fortuna sfacciata?) tutto si è ‘incastrato’ nel migliore dei modi. Quando abbiamo visto l’installazione prendere la propria forma a Spazio In Situ abbiamo entrambi tirato un sospiro di sollievo e contentezza, insieme. Io personalmente, poi, sono stato molto angosciato in un primo momento, entrato in quella tipica crisi che si crea, a volte, quando si lascia troppa libertà espressiva ( “tu puoi fare quello che vuoi”). Essendo un designer di formazione che usa l’arte come mezzo per criticare la propria disciplina, abituato a ragionare su dei vincoli chiari, mi sono trovato in mezzo al mare senza una direzione precisa, se non quella che potevo inventarmi o vedere io stesso oltre l’orizzonte. Ma proprio grazie a questa paura e frustrazione sono riuscito a guardarmi dentro e a concepire un progetto originale in linea con la mia ricerca, ma anche molto personale. Mi ricordo che in quei giorni pieni di tensione e aspettative, passavo le serate a spararmi 2-3 film horror di fila per cercare un po’ di calma e di ritrovare il giusto focus (e funzionava!). Così è nato Domestic Horrorscapes #01».


HARDCHITEPTURE

Scoperte e Costruzioni. In che modo l’epifania dell’intuizione visiva converge nell’idea progettuale dell’opera, e qual è la sua importanza in funzione della realizzazione fisica dell’assemblage?
Come interagisce la vostra ricerca fisica e concettuale con quella metodologica operata dalla curatrice Desideri?

Hardchitepture: «La manifestazione visiva dell’operato entra in stretto contatto con il processo stesso dato che la sua estetica esprime anche l’insieme del contesto sociale da cui proviene. Per la maggior parte dei casi lavorare con materiali di scarto rende manifestabile un’immaginazione processuale con origine nello spazio urbano, approdando poi nello spazio espositivo. La ricerca di questi materiali, che rispecchiano la società dello spreco, limita e potenzia la contestualizzazione del lavoro. Limite dato dall’inevitabile improvvisazione, dove l’intuizione visiva ha il suo fondamentale ruolo selettivo. Potenza per il materiale recepito, fossile di una società antiecologica, che infine trova equilibrio in un’immaginazione sia collettiva che soggettiva.

Gli oggetti selezionati sono considerati da noi come dispositivi di narrazione. Ognuno apre un sipario in un percorso storico, sociale e geografico. Permettendogli un incontro del tutto inaspettato, essi rinascono nella società con uno spirito di unione, festa e celebrazione, scrivendo una loro nuova storia collettiva. Il format progettuale concepito da Arianna, basato su una fiducia relazionale tra artista e curatore, ci ha dato la libertà d’instaurare una forte connessione con il materiale da lei offerto. Ibridandolo nel nostro processo lavorativo, che trova somiglianza al concetto da lei formulato, con uno spirito di conoscenza, sperimentazione e mutazione».

La mostra si è conclusa:
Spazio In Situ
Via S. Biagio Platani, 7 – Roma
Dal 15 maggio 2021 al 12 giugno 2021

curatela offresi x ISIT.Exhi#001
A cura di Arianna Desideri
Artisti Jacopo Ernesto Gasparrini, Sofia Tocca, Sofia Ricciardi, Leonardo Avesani, Mitikafe, zzzzz_project, Hardchitepture