La Biennale internazionale di fotografia, quest’anno, sembra un po’ soffocata dagli anniversari (dall’allunaggio a Tienanmen, passando per la rivoluzione iraniana e la caduta del Muro di Berlino). Due i fotografi che colpiscono per originalità e aderenza etico-estetica, entrambi russi: Dmitry Markov e Valery Melnikov.

A Palazzo Ducale la prima mostra che ci accoglie è un reportage del 2019 di Steve McCurry sulla Cina, nel quale utilizza l’ultima macchina messa sul mercato dalla Leica (lo puntualizziamo in quanto è lo stesso fotografo a volerlo riferire). Immagini di una luminosità e nitidezza incredibili, inquadrature sempre precise, ritratti tridimensionali nella loro prepotente soggettività, che confermano, una volta di più, la curiosità nell’occhio e nella mente dietro l’obiettivo.

Accanto, le foto di Magnum Revolution scorrono in un video ospitato in una stanzetta angusta, ove non c’è modo di sedersi. Le immagini, soprattutto in bianco e nero, raccontano senza l’ausilio di parole (e con un sottofondo sonoro né piacevole né emotivamente coinvolgente) i maggiori conflitti dalla metà del Novecento fino ai giorni nostri. Dall’Afghanistan alla Cecenia, dalla Palestina alla Siria, passando per l’Ungheria del ‘56 e la rivoluzione cubana. Ogni fotografo ha il suo sguardo, sia a livello estetico (nella scelta delle inquadrature prima ancora che dei soggetti) sia ideologico. E ciò che si nota è che, nonostante l’avvento del digitale, persistono due tipi di fotografi di guerra (e di pace): quelli che si trovano nel posto giusto al momento giusto e scattano una foto da prima pagina e quelli che, attraverso i loro reportage, ricostruiscono un intero mondo grazie a un’accuratezza anche tecnica da veri artisti (nelle inquadrature, nell’uso del colore o nella scelta del bianco e nero, nelle diagonali prospettiche, nella messa a fuoco, e così via). Jérôme Sessini sicuramente tra i più interessanti di questa seconda categoria. La posizione scomoda non permette però di godere appieno di questo memento mori del nostro, spesso tragico, passato recente.

A seguire la sezione dedicata al lavoro di Abbas – fotografo iraniano esule in Francia, deceduto nel 2018 – e, in particolare, al suo reportage sull’Iran durante la rivoluzione del ‘79 che portò all’attuale Stato teocratico. Nelle fotografie in bianco e nero emergono due figure (reali e simboliche): la massa (uomini e donne in divisa, in corteo, in fuga, in lutto, in coda, in marcia) e Khomeini (ritratto o in carne e ossa, protetto, osannato, implorato, portato in trionfo).

Se le foto di Vincent Delbrouck ci restituiscono, coi colori brillanti dei Caraibi, una comunità di giovani cubani sfiduciati e svogliati come molti loro coetanei in giro per il mondo, più interessati a farsi una storia che a fare la storia (mentre si lamentano che lo Stato cubano non gli garantirebbe “una carriera“, quando in Occidente non ci garantisce nemmeno un lavoro); l’installazione di Davide Monteleone mira a ricostruire i giorni precedenti la Rivoluzione d’Ottobre e, in particolare, quelli vissuti da Lenin prima del rientro in patria.

Nella sala successiva, gli scatti di Dmitry Markov, che ritraggono la Russia contemporanea, esposti in una serie di piccoli pannelli quadrati, hanno il sapore del vecchio album di famiglia – composto da scatti casuali e “pose per papà”, di scampagnate domenicali e chiacchierate su una panchina, della vita quotidiana che si perde nei silenzi di un’inquadratura, che sospende il tempo e ci restituisce un attimo cristallizzato di intimità condiviso – ma non rubato. Si prova la medesima sensazione di quando, passando, si nota uno sconosciuto e ci si chiede chi sia, cosa faccia, a cosa stia pensando, cosa provi; e d’un tratto ci si rende conto che quell’essere, tra un istante, uscirà dal nostro campo visivo e forse non esisterà più – non solamente per noi, ma in assoluto: perso alla nostra coscienza, consapevolezza, realtà. E l’illuminazione successiva è scoprire che la stessa cosa vale per noi: impressione retinica fugace nell’occhio dell’altro. Markov ha il potere di rendere quell’attimo d’incontro eterno e, attraverso la successione di inquadrature, minimali come le nostre brevi vite, ricostruire il nostro mondo abitato da contraddizioni palesi e lampi di bellezza.

Da Palazzo Ducale all’ex Cavallerizza Ducale il passo è breve. Qui si trovano alcune personali che denotano una rielaborazione artistico/installativa del materiale fotografico – non sempre riuscita.

Molto più interessante il lavoro di Paulo Coqueiro che si interroga – attraverso l’autofinzione (genere che sta sempre più prendendo piede e vede, in teatro, l’affermarsi di drammaturghi come l’uruguaiano Sergio Blanco), ossia la creazione di un proprio alter ego che si muove tra vero e verosimile – sulla realtà dell’esistenza in un Paese, come il Brasile, dove è l’assenza a dominare il vivere quotidiano – tra scomparsi (i desaparecidos latinoamericani) e anonimi (gli esclusi sociali ed economici). Sottotitolo della mostra potrebbe essere: “quando il verosimile disvela la verità persino attraverso le fake-news“.
In mostra anche il vincitore dell’Intarget PhotoLux Award 2019, Valery Melnikov, con il suo fotoreportage – di una qualità decisamente pittorica – dall’area dell’Ucraina orientale, il Donbass, ove la Grey Zone (titolo anche del reportage) è una waste land nella quale tutto è immerso in un grigiore psicologico e ambientale, ben semplificato dall’estetica delle immagini e che racconta, senza bisogno di parole, lo stato di sospensione, di non-appartenenza in un limbo nel quale vegetano, più che vivere, gli abitanti (dopo la fine del conflitto armato di matrice separatista ma senza un reale stato di pace).

Mentre i politici di tutto il mondo si battono il petto per la questione ambientale, i progetti economico-politici vanno avanti senza scosse. Interessante, a proposito, la contraddizione tra intento e resa delle fotografie di Joan Fontcuberta, assunto per la promozione e l’immagine – dalla cinese Galaxy Entertainment Inc. – dell’ennesimo parco tematico (questa volta dedicato a Marte), con contorno di hotel, ristoranti e un aeroporto per i voli turistici diretti Cina/Spagna, che sarà costruito in una tra le aree più belle e selvagge del Paese iberico, ossia Huelva. Dove attualmente sorge il serbatoio di Gossan (che dovrà essere ricostruito in altra area), si scopre – attraverso l’installazione, con foto e materiale promozionale (e qui ci si domanda il perché della scelta di materiale pubblicitario per una mostra) – che sarà edificata l’ennesima cattedrale nel deserto. L’installazione, in ogni caso e nonostante l’intento di Fontcuberta sia di promuovere l’investimento della Galaxy Entertainment Inc., restituisce al contrario l’idea dell’ennesima speculazione edilizia su un’area naturale (con una zona umida, habitat di alcune specie di uccelli). L’indomabile disegno strategico umano teso alla desertificazione del nostro pianeta – e che porterà, in un prossimo futuro, a non aver più bisogno di parchi tematici per ritrovarci su Marte, in Terra.
La sala successiva, dato che il PhotoLux quest’anno sembra in vena di anniversari, è dedicata alle foto di Dario Mitidieri che immortalano la notte tra il 3 e il 4 giugno 1989, in cui fu sgombrata piazza Tienanmen – mettendo una pietra tombale sulle richieste di maggiore democrazia della gioventù cinese, ma dando il via al progressivo arricchimento di una fascia della popolazione con le aperture verso la libera impresa, il liberismo economico e l’arricchimento personale.

Sulla stessa scia, le immagini di Stéphane Duroy sull’anniversario della caduta del Muro di Berlino e che coprono il decennio 1980/90. Qui lascia esterrefatti la presentazione che citiamo per intero e pedissequamente (errori ortografici compresi): “Sfortunamente per il mondo occidentale, l’incrocio dei destini di Stalin, Rosa Luxembourg e Adolf Hitler ha trasformato Berlino nella capitale della sofferenza. Sin dalla sua proclamazione, il 9 novembre 1918, Weimar ha conosciuto una pericolosa esistenza. Le reazioni negative sono state numerose e violente, sia dall’interno che dall’esterno: rivoluzioni (Spartacismo), rovesciamenti (W. Kapp, A. Hitler), inflazione (1923) e debiti di guerra (trattato di Versailles)”. Ora, a prescindere che si dice Spartachismo e non Spartacismo, e sfortunamente potrebbe stare per sfortunatamente, mettere sullo stesso piano il pensiero e l’azione di Rosa Luxemburg (con la u non con la ou, e perché non citare a questo punto anche Karl Liebknecht?) con quelli di Stalin e/o Hitler è antistorico, offensivo e pericolosamente qualunquista. Occorrerebbe stare più attenti quando si fanno simili affermazioni soprattutto in un’epoca, come la nostra, dove rigurgiti fascisti e nazisti, antisemitismo e derive ideologiche estremiste e violente stanno prendendo piede. Doppiamente, in una manifestazione come PhotoLux, che dovrebbe essere un occhio sul mondo.

Veniamo, quindi, all’ultimo step di questo nostro percorso recandoci a Villa Bottini. Qui, la prima cosa che colpisce è l’incongruenza tra la presentazione della ricerca antropologica che dovrebbe sottostare al reportage di Emanuela Colombo a Brazilka, in Lituania, e il suo sviluppo nelle foto esposte che, sinceramente, non restituiscono né la complessità socio-economica (ex zona povera rurale che, attualmente, si starebbe trasformando in una nuova “Malibu”) né le stratificazioni storiche (ex migranti tornati in patria riportando comunque ricordi dell’esperienza nelle piantagioni di caffè brasiliane) preannunciate. Un’identica sensazione di non consequenzialità si prova di fronte a Borders di Jean-Michel André o a La promenade di André Vasilenko. Tutti lavori che nascono nell’ambito del progetto ERA. European Residence Award, ossia di tre residenze d’artista svoltesi a Lucca, Kaunas (Lituania) e Beauvais (Francia). Forse, aldilà della qualità tecnica del fare fotografia, per comprendere un luogo e le sue problematiche occorrono, innanzi tutto, tempi più lunghi (di due settimane) e, inoltre, un’esigenza personale, dell’artista (in questo caso, del fotografo), di indagare proprio quei luoghi e le precise situazioni in atto.

Al primo piano, due personali d’autore: Behind the Wall di David Appleby e La rivelazione umana di Romano Cagnoni. Partiamo da quest’ultimo e dalla bella retrospettiva che racconta non solamente il Vietnam nel ‘65 o il Biafra nel ‘68 ma soprattutto il grande impatto etico-estetico che può avere una foto. Cagnoni si concentra sull’essere umano restituendogli piena dignità e una centralità inusitata anche di fronte alla Storia con la S maiuscola. Basta osservare la donna che urla attraverso un buco nella bandiera rumena, là dove prima c’era il simbolo della falce e martello (Bucarest, 1989), o la bambina Nord vietnamita che reca sotto il braccio un quaderno e una piccola scrivania e, nello sguardo e nel portamento, comunica una serietà e una dignità regali, per rendersi conto dell’empatia che il fotografo ha saputo creare con il modello e di come riesca a restituircela in pieno. Ogni inquadratura, ogni volto racchiude un universo di senso. La foto di Fidel che beve la Coca-Cola è emblematica in questo senso: in un semplice gesto si racchiude una verità che chiunque sia andato a Cuba conosce, ossia che sono gli statunitensi ad avercela con i cubani e non viceversa. O ancora, basta guardare i volti torvi dei militari cileni nel ‘71, che passeggiano davanti a un poster di Che Guevara a Santiago (due anni prima del colpo di Stato), per capire che esiste una linea netta di demarcazione ideologica e umana tra loro e il simbolo della rivoluzione cubana.

Passando a una visione più leggera ma non meno emblematica di un’epoca, si segue con piacere la personale di Appleby dedicata al dietro le quinte del film di Alan Parker, The Wall, ispirato all’album omonimo dei Pink Floyd e con la musica originale in sottofondo. Si susseguono scatti rubati nel backstage e riprese dal film nel suo farsi, ma anche di chi sta solitamente dietro la macchina da presa con un disvelamento che mette in evidenza il côté metateatrale nell’occhio di Appleby. E sempre, negli scatti durante le riprese o nei momenti di relax, si nota un identico filo narrativo ed emozionale, che resta teso e vibrante anche quando il fotografo inquadra Bob Geldof mentre si rilassa in piscina ai Pinewood Studios. Il gioco di luci e ombre, il bianco e nero dalla resa metallica, l’atmosfera sospesa rendono un sostrato surreale che impregna ogni immagine e costruisce un percorso di senso esaustivo e comprensibile.

A nostro parere, infatti, un reportage è come un libro e una foto è una frase che serve a comporre un discorso che dovrà arrivare allo spettatore, ossia all’altro da sé. Solo mettendo al centro del lavoro dell’artista, sia esso fotografico o pittorico, scultoreo o performativo, il bisogno di comunicare (un pensiero e/o un’emozione) si potrà davvero tornare a parlare di arte e non solamente di tecnica o concettualità autoreferenziale.

Photolux Festival Edizione 2019
Mondi / New Worlds
Lucca, varie location
da sabato 16 novembre a domenica 8 dicembre 2019
orari: dal lunedì al venerdì, dalle ore 15.00 alle 19.30; sabato e domenica, dalle ore 10.00 alle 19.30