Sembra morto!

Palazzo Bonaparte porta in scena 43 mega-installazioni dei più influenti artisti contemporanei aderenti all’Iperrealismo, un movimento artistico che dagli anni ’70 ad oggi non ha mai smesso di sfidare i canoni della percezione ordinaria. Sculture umane e animali, verisimili o mostruose, rappresentate nella loro interezza o fatte a pezzi, ci spingono ad esplorare il confine tra reale e immaginario, tra sembiante e simulacro, tra naturale e artificiale, rivelando il bizzarro impasto di pulsione di morte e desiderio di immortalità che abita in ognuno di noi.

“Tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone”. Questa celebre asserzione di Alfred N. Whitehead, contenuta nella sua monumentale opera Process and Reality (1979), dice una verità che ci sentiamo di condividere e che riguarda non soltanto la storia del pensiero, ma più estesamente la storia della cultura e dell’arte di questo nostro angolo di mondo. Si tratta, infatti, ancora una volta – e sempre di nuovo – di ripartire da Platone, se vogliamo tentare di comprendere l’operazione estetica e mediatica messa in campo da Maximilian Letze e Nicolas Ballarino, i curatori dell’avvincente mostra Sembra vivo!, ospitata da Palazzo Bonaparte fino all’8 ottobre prossimo e dedicata alla scultura (ma non solo) iperrealista.

Operazione che merita il crescente successo tributato dal pubblico e che si presta a differenti livelli di lettura: il primo, quello più immediato, dovuto alla sorpresa di trovarsi di fronte a sculture che sembrano vive; il secondo, meno superficiale, quando dallo stupore si passa allo sgomento e alla decostruzione delle categorie  concettuali con le quali il discorso dell’arte si è articolato per secoli; il terzo, quasi mistico, quando – dopo avere esplorato le diverse declinazioni dell’Iperrealismo – si avverte una sottile angoscia scatenata dal dubbio di aver fatto un viaggio nell’aldilà. Inoltrandoci nelle meravigliose stanze del Palazzo Bonaparte, infatti, assistiti da un allestimento minimalista di notevole impatto, assai attento all’equilibrio di luci ed ombre, come nella caverna platonica, ci siamo imbattuti in fantocci dalle sembianze umane o in animali frutto di incroci impossibili (almeno per ora), compiendo un viaggio a un tempo fisico e mentale tra alcuni Archetipi dell’inconscio collettivo.

La messa in scena plastica, per così dire tridimensionale, della Persona e dell’Ombra, dell’Anima e dell’Animus, della Grande Madre e del Padre o del Vecchio saggio consente agli spettatori di riattivare un dialogo con le primordiali istanze ordinatrici dei nostri processi psichici, di associare immagini, simboli e idee depositate in noi da tempo immemore, di sognare ad occhi aperti l’energia creativa dalla quale siamo sempre sollecitati: per dirla con Jung, “ogni volta che un archetipo appare nel sogno, nella fantasia o nella vita, reca con sé un certo ‘influsso’ o una forza, grazie alla quale agisce ‘numinosamente’, ossia come forza fascinatrice o come incitamento all’azione” (Due testi di psicologia analitica). Ci siamo trovati così ad empatizzare con l’iconica testa di Andy Warhol creata da Kazu Hiro (2013) o con l’Ordinary Man di Zharko Basheski (2009-10) mentre emerge dall’asfalto in frantumi, per non parlare del dittico di Marc Sijan che rappresenta plasticamente l’Embrace (2014) di una donna accovacciata sopra un uomo: tutte sculture che a debita distanza – e cioè non troppo da vicino – ci sono sembrate vive (l’esposizione mantiene quello che promette), procurando in noi una temporanea sospensione dell’incredulità (suspension of disbelief), come avviene al cinema o a teatro, almeno sino a quando lo spettacolo non si conclude con l’applauso del pubblico.

Ora, reale, vivo e vero sono aggettivi che utilizziamo spesso come sinonimi e che – alla luce di quanto abbiamo visto – si sono rivelati assai meno interscambiabili. Se poi li confrontiamo con i loro contrari – irreale, morto e falso – la confusione aumenta: lo spettacolo fittizio cui volontariamente ci sottomettiamo non solo è del tutto reale, ma perfino “vero”, in qualche senso tutto da accertare. Inoltre, sebbene la nostra interazione con le sculture sia del tutto “irreale”, quando le guardiamo negli occhi o ci rispecchiamo in alcuni loro gesti, per un brevissimo istante avvertiamo in esse – specie in quelle più “umanoidi” – una scintilla di vita entrare in risonanza con la nostra, pur sapendo che ciò è falso.

Ma andiamo per gradi e, come preannunciato, ricominciamo da Platone. Nel Sofista, Teeteto incalza lo Straniero con le sue domande, portandolo a distinguere ben due tecniche mimetiche: quella del copiare e quella del produrre apparenze (235b – 236d). La prima si attiene alle proporzioni e alle caratteristiche del modello (lunghezza, larghezza, colore, ecc.); la seconda, plasmando opere di grandi (o piccole) dimensioni, produce apparenze deformate rispetto al modello. Ora, fabbricare opere che sembrano simili alle cose è più grave che produrre opere verisimili, benché esse siano tutte distanti dall’Idea, o Forma originale. Nel primo caso, l’artista rappresenta gli oggetti sensibili come sono; nel secondo, fabbrica delle parvenze, intervenendo sulle loro dimensioni e creando ciò che non è. L’arte “realista” rappresenta cose vere ricorrendo ad un’immagine (eidolon), sebbene non sia in grado di restituire il vero essere (eidos); il fabbricatore di apparenze fornisce immagini false delle cose, comportandosi come un mago o un sofista che ne raddoppia l’illusorietà per ottenere divertimento o persuasione.

E l’arte iperrealista? Vuole farci arrivare al vero Essere, approfittando della mediazione sensoriale offerta dalle sculture sensibili o preferisce trattenerci nella comfort zone di un mondo fatto di ombre? Si serve di finzioni, dell’illusorietà del simulacro per farci accedere agli archetipi originali o è un mero gioco di prestigio? La questione del rapporto tra realtà e apparenza apre la strada a questi e ad altri interrogativi, ben più paradossali e sconcertanti. Nessuna delle opere presentate nella mostra è una semplice copia di soggetti reali: alcune si avvicinano alla loro grandezza naturale, ma quasi tutte giocano con le fattezze dei corpi umani, accrescendo a dismisura le normali dimensioni del volto come in Dark Place (2018) di Ron Mueck, alterando statura e silhouette delle persone come in Woman and Child (2010) di Sam Jinks, decapitando il fisico poderoso di un uomo come in Elie (2009) di Berlinde de Bruyckere, eliminando la forza di gravità come in Josh (2010) di Tony Matelli, o inserendo un eccitante corpo femminile in una gigantesca banana come in Chiquita Banana (2007) di Mel Ramos. Ecco svelato il vertiginoso cortocircuito concettuale verso cui i curatori della mostra hanno voluto puntare il dito, anche se sembravano puntarlo altrove, ora ammiccando alle strategie di marketing dell’industria culturale, ora flirtando con l’immaginario capitalista, ora resistendo all’ideologia pop della società dello spettacolo. Una stanza dopo l’altra, la linea di confine fra Iperrealismo e Surrealismo si fa minacciosamente sottile, quasi nulla, giacché gli estremi si toccano: la ricerca della massima aderenza alla realtà produce infatti l’estraniamento da essa; la fedele riproduzione del vivente genera l’effetto opposto, ovvero l’evacuazione del bios e la ripetitività dell’automatico; l’amplificazione ultra-realistica del dettaglio comporta l’inevitabile crisi della mimesis, orientandola verso l’ambiguità espressiva o l’allucinazione psicotica.

Hyperréalisme” è il termine coniato dal gallerista Isy Brachot per la mostra da lui organizzata a Bruxelles nel 1973, dedicata ai maggiori esponenti del movimento fotorealista americano e europeo di quegli anni. L’impatto della fotografia sulla ricerca artistica ci ha insegnato, come Platone aveva già da tempo suggerito ovviamente senza averne potuto saggiare gli effetti, che duplicare realisticamente la realtà è impossibile: la distorsione della parvenza è una mediazione necessaria o, se si vuole, in termini psicoanalitici, un dispositivo protettivo, difensivo della mente, che non può assorbirla così com’è. Il che equivale a dire, in termini psicoanalitici, che il Reale ha bisogno di essere captato nel registro dell’Immaginario per essere assimilato, altrimenti si impone come un “buco” angoscioso o un “abisso” irrapresentabile. Ecco l’utopia inattuabile, il punto debole di ogni realismo e, a maggior ragione, dell’Iperrealismo, rispetto al quale occorre chiedersi se intende restaurare un presunto ordine del reale o invece dissolverlo definitivamente. La domanda che urge porsi al termine del percorso, dunque, non è come facciano alcune di queste sculture a sembrare vive, ma cosa manchi loro per esserlo davvero! Passando dal primo al secondo livello di lettura, cui abbiamo accennato all’inizio, si comprende che vivere ed esistere non hanno lo stesso significato, anche se si implicano. Il contrario del primo termine è perire, mentre – ad essere precisi – il contrario del secondo è morire. Per dirla con Martin Heidegger: “l’uscire-dal-mondo da parte dell’Esserci in conseguenza della morte deve essere tenuto distinto dall’uscire-dal-mondo proprio del semplice vivente. La fine di un ente semplicemente vivente noi la chiamiamo cessazione della vita” (Essere e tempo).

Le sculture iperrealiste, dunque, non possono sembrare vive perché non possono perire; d’altra parte, non possono nemmeno sembrare esistenti (e cioè sembrare degli Esserci come noi) perché non possono morire. Sarebbe allora più opportuno asserire che sembrano morte? Sensazione che in effetti avvertiamo, soprattutto dopo averle fissate a lungo? Anche in questo caso, però, dovrebbero prima essere esistite, per sembrare davvero morte. Come può sembrare morto qualcuno che non è mai esistito? Qual è, pertanto, lo statuto ontologico delle sculture iperrealiste? L’Iperrealismo è solo un’arte dell’intrattenimento o una filosofia della vita e dell’esistenza? Ecco la vera posta in gioco della mostra: trovare un altro titolo, tutto da inventare.

Photo credits
@Kazu Hiro, Andy Warhol, 2013, Silicone polimerizzato al platino, capelli umani, resina, supporto cromato, 213x91x91 cm, Collezione dell’artista. Image Courtesy: l’artista

@Zharko Basheski, Ordinary Man, 2009-10, Resina poliestere, vetroresina, silicone, capelli220x180x85 cm. Collezione dell’artista. Image Courtesy: l’artista

@Marc Sijan, Embrace, 2014, Resina poliestere, colori ad olio78,7×93,9×78,7 cm. Collezione dell’artista. Image Courtesy: l’artista

@Mel Ramos, Chiquita Banana, 2007, Resina sintetica policroma170x110x110 cm. Galerie Ernst Hilger, Vienna© VG Bild-Kunst, Bonn 2023Image Courtesy: Galerie Ernst Hilger, Austria© Mel Ramos by SIAE 2023

In copertina @Sam Jinks, Woman and Child, 2010, Tecnica mista. Edizione di 3145x40x40 cm. Collezione dell’artista. Image Courtesy: l’artista e Sullivan+Strumpf, Sydney

La mostra continua
Palazzo Bonaparte
Piazza Venezia 5 – ROMA

Arthemisia presenta
Sembra vivo! Sculture iper-realiste dei più grandi artisti contemporanei
a cura di Maximilian Letze in collaborazione con Nicolas Ballarino
ideata dall’Istitut für Kulturaustausch, Tübingen (Germania)
sponsor Generali Valore Cultura
special partner Ricola
mobility partner Atac e Frecciarossa Treno Ufficiale
media partner Urban Vision
partner Mercato Centrale Roma