Ritratti d’autore

Nella fuggevolezza del tempo i contorni del reale sbiadiscono in un disegno di ri-progettazione identitaria dell’esperienza umana. In questa condizione di vita liquida, come sostiene Zygmunt Bauman, ogni cosa vive l’imperativo stato di transitorietà permanendo in una costante situazione di instabilità emotiva. 

A sondare con attenzione gli abissi e i paradigmi di tale sistema, rintracciando approssimazione emozionali di questo presente evanescente, è l’artista Sveva Angeletti (classe ‘91) che nella sua ricerca artistica dai tratti delicatamente poetici e romantici si interroga sulle relazioni tra gli individui, sull’intensità emozionale, sui meccanismi dell’empatia e sugli approcci della visione in mondo in via di smaterializzazione. In occasione della sua nuova personale Quello che guardo io, non vedi tu; quello che non vedo io, lo guardi tu al Chiostro di Santa Maria sopra Minerva a Roma le abbiamo rivolto alcune domande.

Nell’orizzonte contemporaneo vinto dal sentimento della precarietà, ogni esperienza vive in bilico nel tempo della transitorietà. In questo quadro di perenne instabilità come reagisce l’arte e in relazione a quest’ultima come si sviluppano e quale valore assumono le relazioni umane?
Sveva Angeletti: «L’arte si piega e si plasma al racconto del contesto in cui si inserisce. La transitorietà, la smaterializzazione, la banalità e la futilità sono concetti su cui m’interrogo nella mia ricerca e nelle mie osservazioni. Lo sguardo è quello di una società alienata e non liberata, sgretolata, frammentata e digitalizzata; annullata nella sua natura e risorta nell’apparente e vagabonda ideologia dell’immortalità virtuale. Le relazioni in questo modo e in questo contesto si sfaldano, si deteriorano, si spixellano, diventano storie come quelle scritte in A4: un terzo per l’introduzione, un terzo per la narrazione, un terzo per la fine, anche se poi nel ricordo i terzi non sono mai così uguali e si finisce per ricordare che tutta la pagina era fatta solo dell’inizio o solo dell’epilogo. Tuttavia il termine è vincolato al foglio, e, mentre il tempo viaggia su altri confini, con i fogli ci si fanno coriandoli».

L’aleatorietà della trasparenza agisce come filtro visivo in una delle opere presenti nella tua ultima personale Quello che guardo io, non vedi tu; quello che non vedo io, lo guardi tu al Chiostro di Santa Maria sopra Minerva. Come si configura il rapporto tra visione e immaterialità? E rispetto al messaggio veicolato dal titolo quale pensa possa essere un modo efficace per accrescere l’”empatia”?
S. A.: «Tra visione e immaterialità, come tra il concetto e la sua configurazione formale, c’è un rapporto amoroso fatto di contrasti, di abitudini e scardinamenti, di promesse in matrimonio e ammutinamenti emotivi. Non prevale che l’idea dell’inconsistenza, che con un cenno alla sua identità, non esiste, ma c’è. L’empatia si coltiva immedesimandosi con la vita, vivere nell’altro e con l’altro. In questo modo si possono comprendere le sensazioni e percepire il rapporto di causa – effetto che è alla base della logica dell’esistenza. In questo senso ammiro la recitazione, l’esercizio al modellarsi sull’altro, senza esserlo, ma immedesimandosi in lui per poi tornare in sé e cambiare approccio. Io cambio, e per tutte le volte che cambio, alla fine, torno sempre me».

Nel versante fotografico l’immagine digitale come interagisce con lo spazio in cui vive e come reagisce all’innesto con l’eterogeneità di altri medium linguistici come l’installazione, la scultura ecc. ? In virtù di questa ibridazione come si modifica la narrazione artistica?
S. A.: «L’immagine vive come mezzo espressivo, con la stessa dignità di un tubo di un tempo o di un urlo. Con questo tipo di approccio è difficile parlare di narrazione artistica, piuttosto parlerei di suggestione, di supposizione, qualcosa insomma che non suggerisca una chiusura bensì un’apertura a molteplici visioni. La narrazione è una posizione, un’opera d’arte è un’impressione, un suggerimento».

L’effimerità nell’arte si configura nella sua duplice natura di specchietto alienante ed emanazione del trascendente, prendendo molteplici strade. Com’è nata la riflessione per Tutte le cose che non ti ho detto e tutte le cose che ti direi all’interno della vetrina di Co_atto nella stazione Garibaldi di Milano e quali sono stati i suoi risvolti?
S. A.: «Quell’installazione è nata dalla riflessione sulla natura dello spazio che l’avrebbe accolta. Si tratta di un contesto altro rispetto all’arte contemporanea, con un afflusso di visitatori involontari non predisposti (perlomeno in quel contesto/momento)  e senza mediazione culturale. Si tratta di un’opera che vuole raccontare la decadenza di una festa finita di una gioia passata e accatastata su se stessa che piano piano si sgonfia. Un amore disperatamente cercato e voluto e un distacco fatto di parole mancate sbagliate rubate e vomitate. Una richiesta di comprensione e una paura dell’abbandono. Un messaggio universale e diretto. Quello che volevo raccontare era un messaggio rilevante per me, triste in qualche modo, ma raccontato attraverso un espediente divertente. Il presupposto in realtà muoveva da un progetto di corteggiamento corso in quel periodo che prevedeva l’invio di un vassoio di pizzette rosse incartate con delle immagini di fotografie analogiche di vita intima;  queste fotografie, stampate su pvc, avevano su scritto  “please love me” e venivano spedite a delle gallerie d’arte con annessa lettera d’amore. Un progetto che voleva riflettere e ironicamente porre l’attenzione sulla dinamica che si instaura tra un artista e l’intero sistema dell’arte – curatori, giornalisti, galleristi, mercanti – il progetto si chiamava Anything goes proprio perché in guerra e in amore tutto vale».

Ideare un’installazione è un processo di risoluzione in divenire e al contempo un atto poetico. Come comunicano queste due dimensioni nella concretizzazione del processo artistico? E cosa rende l’installazione campo di sperimentazione ideale rispetto al concetto di relazione?
S. A.: «L’atto poetico è il presupposto e la sua la concretizzazione. La dimensione del divenire consente al lavoro di mutare, di muoversi nel tempo in base a chi lo osserva, piegandosi e completandosi con l’interazione.  L’installazione può essere considerata campo di sperimentazione per il concetto di relazione, ma non è l’unico mezzo espressivo in grado di manifestarla. L’ibridazione dei medium, sicuramente concede la possibilità di innestare meccanismi vari e variabili, quindi forse più inclini a raccontare la complessità delle interazioni tra gli individui e in questo senso può concedere una paurosa libertà».

La percezione di un’opera si sviluppa in un gioco sensoriale di decodificazione da cui possono risultare infiniti esiti. In questa chiave il background emotivo dietro un’opera come Natura Morta, riallestita attualmente presso Officine Brandimarte dopo il successo della mostra Quando cade la magia rimane la disinvoltura a Spazio In Situ, come risponde alla fruizione collettiva?
S. A.: «La decodificazione, in questo contesto, parte da un sistema di assunti e presupposti generici legati alla cultura alla tradizione e alle abitudini di un preciso contesto in cui si propone. In questo senso la Natura Morta tenta risveglia dei ricordi comuni a tutti, l’infanzia e la concezione di momento ludico. I peluche però non hanno volti, o espressioni, sono rappresentazioni di loro stessi, sono annullati. Nella modalità di percezione e di fruizione, quest’opera può raggiungere derive autonome, in base alla predisposizione di chi la osserva, e soprattutto di quanto tempo le si vuole dedicare. Un altro aspetto che mi piace sottolineare è l’estetica del folklore: una colonna di peluche agganciati, in composizione, su una catena. La formazione è quella dei premi in fiera, bisogna sparare alle lattine, colpirle e farle cadere per riuscire ad aggiudicarsi un pezzo».

Nella provvisorietà relazionale come si instaura il vincolo di collaborazione intellettuale e artistica all’interno di uno spazio operativo, come nel caso dell’ “art run space” Spazio In Situ?
S. A.: «La collaborazione intellettuale è il principio su cui si basa un artist-run space ed è fondamentale nella costruzione di progetti condivisi o indipendenti. Spazio In Situ è “Una lunga storia d’amore”. Indispensabile come una famiglia, devastante come una guerra».

Quali saranno le tematiche e le ricerche su cui si concentrerà in futuro e quali i progetti in cantiere?
S. A.: «Quello che mi interessa è sempre l’osservazione e nello specifico come si muove l’arte, come si manifesta, come si relaziona con il mondo e attraverso quali canali. Non nego che la sperimentazione a volte può essere un esercizio stilistico un po’ naif, piuttosto sarebbe interessante riflettere sulla smaterializzazione e sulle modalità di quest’ultima di manifestarsi nell’impronta post-trap e post-romantica dell’ideologia contemporanea. Una contraddizione in termini che dà spazio a osservazioni molteplici, tra la banalizzazione del reale, l’ironia asincrona e la necessaria frivolezza che ci concede ogni giorno di andare avanti».
Nelle foto: Sveva Angeletti, Quello che guardo io, non vedi tu; quello che non vedo io, lo guardi tu, Chiostro di Santa Maria sopra Minerva, 2022 ©courtesy of Sveva Angeletti
Sveva Angeletti, detail#2 Quello che guardo io, non vedi tu; quello che non vedo io, lo guardi tu, Chiostro di Santa Maria sopra Minerva, 2022 ©courtesy of Sveva Angeletti