Il 20 febbraio 1909 Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto, 1876 – Bellagio, 1944) fece pubblicare a pagamento, sulla prima pagina del giornale parigino Le Figaro, il Manifesto di fondazione del Futurismo.

Un testo indirizzato «a tutti gli uomini vivi della terra» e nel quale erano contenute, seppur a livello embrionale, tutte le tesi del nuovo movimento: rottura con il passato, polemica contro l’accademismo, celebrazione della civiltà meccanica e del suo dinamismo, ammirazione per ogni tipo di energia e aggressività, distruzione della sintassi tradizionale al fine di ritrovare naturalezza e sincerità nell’espressione.
Le caratteristiche fondanti del futurismo, nonostante l’enfasi e l’irruenza proprie di molte avanguardie (non bisogna dimenticare che tale movimento tentava di dare forma all’importante ed effervescente cultura di una nazione appena uscita dalle lotte risorgimentali), si ritrovano con facilità nelle filosofie della fine del XIX secolo e del principio del XX. Se dall’estetica crociana e dal bergsonismo Marinetti derivava la concezione della poesia libera da strutture logiche e ridotta a pura intuizione della realtà, dalle dottrine di Friedrich Nietzsche e di Georges Sorel ricavava l’esaltazione dell’energia e della volontà di potenza, avvicinandosi inevitabilmente alle posizioni dei trionfanti nazionalismi. Malgrado ciò, allontanandosi dal pensiero di questi lontani maestri, lo scrittore poteva conservare nella sua poetica anche un’ingenua fiducia, di tipo naturalistico e di ascendenza positivistica, nella realtà materiale intesa come essenza della creazione artistica. Tanto che i successivi manifesti, davvero rivoluzionari nel loro genere, portarono precisazioni sempre più determinate sulla tecnica espressiva che il futurismo voleva imporre alla poesia e alle arti. Del 1910 è il Manifesto tecnico della letteratura futurista dello stesso Marinetti, nel quale venne affermato il principio delle parole in libertà, ovverossia di una poesia e di una prosa libere dalle gabbie della sintassi, della metrica tradizionale e della punteggiatura. E in questo modo capaci di orchestrare colori, rumori, suoni e di fondere in sintesi nuove i materiali espressivi della lingua e dei dialetti e, più in generale, tutto ciò che nella realtà è suono espressione e immagine.
Nel medesimo anno uscivano il Manifesto della pittura futurista di Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Carlo Carrà, Luigi Russolo e Gino Severini.
In esso gli autori si proponevano di elaborare un’immagine moderna della vita, esaltandone il dinamismo ed esprimendo la molteplicità delle cose attraverso la continuità del moto. Sempre del 1910 è il Manifesto dei musicisti futuristi di Francesco Pratella, integrato l’anno successivo dal Manifesto tecnico della musica futurista.
Nella prefazione al catalogo della mostra che nel febbraio del 1912 i futuristi tennero nella Galleria Bernheim-Jeune di Parigi, si legge «La simultaneità degli stati d’animo nell’opera d’arte: ecco la meta inebriante della nostra arte. Per far vivere lo spettatore al centro del quadro, bisogna che il quadro sia la sintesi di quello che si ricorda e di quello che si vede».
Fra i raggiungimenti più significativi della pittura futurista sono appunto gli stati d’animo dipinti da Boccioni nel 1911: Gli addii (1911), Quelli che vanno (1911), Quelli che restano (1911), ove il pittore va oltre lo statico impianto cubista.
Sempre del 1912 è il manifesto di Boccioni sulla scultura e del 1913 quello di Antonio Sant’Elia sull’architettura futurista, mentre del 1915 è quello di Marinetti ed Emilio Settimelli sul teatro futurista sintetico. A provare l’importanza del futurismo nella storia della letteratura nonché di arti come la pittura e l’architettura, sta l’adesione data al movimento di scrittori e artisti tra i più rappresentativi del XX secolo quali Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini, Ardengo Soffici (quando pubblicarono la rivista Lacerba), Boccioni, Carrà, Russolo e Severini.
Il futurismo ebbe vasto seguito in tutto il mondo, dalla Francia alla Russia: nel 1911, Ramon Gomez de la Serna pubblicò sulla sua rivista il Proclama futurista a los españoles; nel 1912 un poeta ed un pittore giapponesi, Seji Togo e Tai Kambara, tradussero scritti e saggi del noto movimento per il paese del Sol Levante; nel 1914 Marinetti firmò con Cristopher W. Nevinson il manifesto Vital English Art che avrebbe ispirato, pur fra contrasti, la nascita del movimento Vortex di EzraPound e di altri poeti inglesi; nel 1922 nacque a Berlino il periodico Der futurismus. Soprattutto, già nel gennaio/febbraio 1914, in occasione del viaggio di Marinetti in Russia, le intelligenze poetiche di Vladimir Majakovskji, Velimir Chlebnikov, Igor’ Severjanin e Boris Pasternak, riconobbero nello scrittore nato ad Alessandria d’Egitto, il «comandante in capo delle armate futuriste». Da queste esperienze presero avvio, in larga misura, i movimenti artistici successivi.
Tuttavia, gli artisti più innovativi, se si eccettuano Boccioni e Antonio Sant’Elia morti ambedue nel 1916, passarono attraverso il futurismo. Come per un’esperienza che li portò a liberarsi risolutamente da ogni accademismo, per trovare poi, ognuno per vie personali, la più autentica vena creativa. Mentre Marinetti e coloro che a lui si tennero fedeli, conclusero la loro carriera come maestri di un nuovo accademismo, assertore, più che di un’arte innovatrice, di un’etica nazionalistica.