Il perturbante universo onirico come fuga dalla gravità del presente

Manca solo un mese alla chiusura della 59 Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia: ciò che lascia sono ossessioni trasfigurate, ma anche utopistiche prospettive di salvezza nei meandri di un passato assoluto.

Mai come quest’anno le urgenze del presente segnano il passo anche sulle aspettative per il futuro, perché se come da sempre accade la Biennale d’Arte è stata in grado di farsi catalizzatrice delle inquietudini e delle disgrazie della cronaca, quest’anno queste ultime possiedono un tale livello di urgenza che paradossalmente l’arte non può non esprimere anche la sua funzione utopica, capace com’è da sempre di assorbire i traumi e di elaborarli trasfigurandoli esteticamente. Forse a questo si riferiva Cecilia Alemani, prima donna curatrice dell’esposizione e responsabile del programma di arte pubblica dell’High Line di New York, quando ha parlato di un’edizione “ottimista”: non tanto l’esaltazione di un’arte trionfalistica e ingenua, quanto la fiducia nei confronti dell’arte di evidenziare il male e sfidare lo scoramento collettivo e privato. Un’arte consapevole delle disgrazie del mondo, ma proprio per questo profondamente matura e capace di reagire, anche solo per rivendicare la sua esistenza tra le macerie e le atrocità che ci riguardano così da vicino.

In fondo Il latte dei sogni a cui fa riferimento il titolo dell’edizione di quest’anno della Biennale è anche questo: Leonora Carrington, scrittrice e illustratrice britannica vissuta in Messico per la maggior parte della sua lunga vita che ha coinciso praticamente con l’intero XX secolo, influenzata profondamente dalla dimensione onirica del surrealismo europeo e dal realismo magico sudamericano, aveva dato vita nel libro The milk of dreams al tentativo di rendere avvincenti e divertenti una serie di disegni che terrorizzavano i bambini. Il risultato fu un libro emozionante dove il mostruoso si ammansisce e l’incubo diventa fonte d’ispirazione: una lezione per tutti i bambini di oggi alle prese con quanto sta accadendo e purtroppo accadrà, ma anche per tutti gli adulti che riscoprono il fascino dell’inquietante. Probabilmente, il termine più appropriato per comprendere questo paradosso di attrazione e repulsione, mutuato dal lessico freudiano, è “perturbante”, ovvero unheimlich – ciò che è domestico, “della casa”, che fuoriesce dalla sua condizione pacificata e irrompe destabilizzando la percezione. Se c’è un filo rosso che mette in connessione le varie parti dell’esposizione forse è proprio quello del perturbante, che lungi dall’essere autocommiserativo dimostra in realtà quanto affascinante possa essere l’incubo: figure biomorfiche, forme aliene, cyborg e macchine antropocentriche invadono gli spazi abbandonando il principio di uso abitudinario, lasciando il fruitore alle prese con le sue domande senza risposta.

Se la curatrice della Biennale d’Arte è per la prima volta una donna e la fonte di ispirazione è il libro di una scrittrice, è giusto che la presenza femminile nel percorso espositivo sia accentuata, dai grandi classici-moderni come Louise Nevelson, Carla Accardi, Rebecca Horn, Barbara Kruger, ad alcune grandi protagoniste della scena contemporanea come le italiane Sara Enrico e Giulia Cenci, nonché l’americana vincitrice Simone Leigh, che alla causa femminista annette la rivendicazione dell’orgoglio della blackness originaria e primitiva, ancestrale e mai archiviata. Per non parlare dell’attrazione angosciante dell’iperrealismo scultoreo del Padiglione Venezia e le produzioni audiovisive del Padiglione dell’Argentina: perturbante è l’uncanny valley, ovvero la “valle” all’interno della quale riconoscimento e mancata identificazione si inseguono in un gioco di disequilibrio perpetuo.

Certamente mai come quest’anno, il titolo e il presunto tema della mostra appaiono come un mero pretesto, anche perché nella dimensione del sogno quando ci si muove nel settore artistico ci si può far rientrare ogni cosa; tuttavia, se l’intenzione di Carrington era quello di far diventare affascinante l’inquietudine, e perciò generare l’unheimlich, allora il “sex appeal dell’inorganico” di benjaminiana e pernioliana memoria ha il suo posto nell’immaginario femminile prima che in quello maschile. Come dimostra l’opera di Mire Lee, l’immaginario organico si fa terrificante, perturbante appunto, perché riconosciamo qualcosa ma allo stesso tempo veniamo smarcati dalla nostra stessa attesa: l’artificiale si confonde col naturale escludendo qualsiasi punto di riferimento rigoroso, ma d’altronde è proprio questa l’utopia dell’arte, ovvero imporre il disorientamento in una realtà sociale che pretende di avere il controllo totale ma che invece è sempre più in balia degli eventi.

Avere il controllo è sinonimo di “essere a casa”, essere in stato di quiete, ovvero l’Heim a cui il termine unheimlich fa riferimento: non a caso alcuni dei padiglioni hanno come matrice espressiva l’idea stessa di casa, e proprio partendo dalla “casa” il gioco di smarcamento e di spostamento concettuale diventa più aggressivo ed efficace. Pensiamo al padiglione austriaco e a quello neozelandese, col riferimento esplicito alla cultura trasngender, ma pensiamo anche alla dimensione performativa e installativa del Padiglione Francese e soprattutto al Padiglione italiano curato da Eugenio Viola e realizzato dall’artista Gian Maria Tosatti: a differenza delle edizioni precedenti, non un percorso o un labirinto di opere, ma un percorso architettonico e immersivo.

Si entra negli spazi di lavoro industriale e portuale di decenni passati, si respira un’atmosfera ormai consegnata al passato assoluto o al ricordo quasi nostalgico. Nel percorso Storia della notte e destino delle comete diventiamo fantasmi che abitano un ricordo, o meglio “un sogno” per restare a tema: ci sentiamo di troppo, ma allo stesso tempo siamo commossi da ciò che osserviamo e attraversiamo. Spazi di lavoro, ma anche ambienti domestici di un passato irrecuperabile, fino a sporgersi su un molo dove, nel mare, in lontananza si intravedono delle luci, lucciole di un passato eterno o i fari dei pescatori al largo consegnati per sempre al buio del passato. D’altronde, se il presente è terrificante, il latte del sogno è un altro modo di evidenziare come una delle poche possibilità d’evasione sia il rifugio nella landa malinconica di un tempo che non tornerà: può essere il passato mitico assoluto del primitivismo originario, l’ambizione a riappropriarsi delle proprie origini culturali irriducibili, oppure il passato assoluto del proprio sé privato, il mondo del sogno radicalmente proprio, la propria infanzia o persino la dimensione mistica che anticipa la stessa nascita e la stessa coscienza. Forse si tratta dell’eterno mare junghiano a cui allude l’installazione del Padiglione Serbo di Vladimir Nikolic dal titolo Walking with Water, un mare nel quale gettarsi in un impulso di abbandono totale. Anche il mare può essere il latte dei sogni.

L’evento continua:
Il latte dei sogni – 59 Esposizione Internazionale d’Arte 
curata da Cecilia Alemani,
Giardini della Biennale, Arsenale – Venezia
dal 23 Aprile al 27 Novembre 2022