I paradossi amari dell’utopia africana

Volge al termine la 18esima Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, ispirata quest’anno a un messaggio di speranza che sfida i vari catastrofismi circolanti e che affida tale messaggio all’Africa, sfidando prevedibili paradossi e ipocrisie.

Un report di Goldman Sachs diffuso quest’anno illustrava come finirà sconvolto nel corso dei prossimi cinquant’anni l’assetto del G10, ovvero delle prime 10 economie mondiali; se il trend resterà quello che si è manifestato in tempi recenti, alla luce degli sconvolgimenti di ordine geopolitico tristemente noti, nel 2075 le prime due economie del mondo saranno quella cinese e quella indiana, seguita da quella statunitense, e questa terna non risulta sorprendente. L’Indonesia al quarto posto e il Pakistan al sesto invece lo sono, così come è indicativa la presenza della Nigeria e dell’Egitto rispettivamente al quinto e al settimo posto. Nel G7 non ci saranno paesi europei, nel G10 dopo il Brasile saranno presenti la Germania e il Regno Unito. Oltre evidentemente a segnalare come anche il BRICS concepito oggi (a partire dallo stesso acronimo) dovrà venire ripensato, il segnale più importante, che spiega in buona parte anche le tensioni internazionali, è il progetto di un nuovo ordinamento globale sganciato finanziariamente dal dollaro, linguisticamente dall’inglese in quanto lingua universale e mediaticamente dal world wide web come unica rete globale condivisa. Non starà a noi decidere se si tratterà di un mondo più equo, più giusto, migliore perché come si usa dire oggi “multipolare” – anche se già oggi si preannuncia come il multipolarismo futuro si concentrerà comunque su un’opposizione binaria tra due sfere di influenza maggiori, come è sempre stato. Inoltre, sempre il report di Goldman Sachs segnala come il nuovo ordine sarà caratterizzato sì da una diminuzione delle disuguaglianza su scala globale (che non significa che “gli altri staranno come noi”, ma che i miserabili del pianeta si avvicineranno alla classe media e noi dovremmo essere disposti, perché costretti, a rinunciare a qualcosa del nostro status di privilegiati) ma da un rafforzamento delle disuguaglianze sul piano domestico, complice l’immaturità in termini di diritti civili e promozione dell’uguaglianza di genere delle nuove economie emergenti. Anche qui, un capitolo già scritto nella storia: i diritti civili e l’emancipazione sono battaglie che trovano aggio solo dopo il miglioramento di ordine economico, sociale nonché politico.

Dopo questa ampia premessa, concentriamoci però su uno dei dati più significativi e incontrovertibili: il ruolo da protagonista che il continente africano ricoprirà nel prossimo futuro, complice una crescita demografica praticamente esclusiva su scala mondiale. Crescita demografica ed economica significa automaticamente investimenti in ambito architettonico e urbanistico, per ripensare città che ormai si aggirano sui dieci, quindici milioni di abitanti, in territori che necessitano un ripensamento in chiave moderna innanzitutto per sconfiggere la piaga della fame e delle malattie. Oltre i già citati Nigeria ed Egitto, ci sono ovviamente il Sudafrica, tutto il nord Africa, ma anche l’Etiopia, il Ghana, il Mozambico, il Congo. Territori sconfinati, parzialmente ancora inesplorati, con megalopoli che spesso smentiscono l’idea ingenua di noi europei del continente africano come una infinita distesa di miseria e arretratezza. La Biennale di Venezia ha perciò deciso di concentrare la sua attenzione proprio sull’Africa: la 18esia Biennale di Architettura ha un titolo indicativo in questo senso, ovvero The Laboratory of the Future. Che questo laboratorio possa essere l’Africa è suggerito dalla scelta della curatrice, ovvero Lesley Lokko, docente di architettura in giro per il mondo e scrittrice di romanzi rosa di successo, che nel suo paese di origine, il Ghana, ha fondato l’African Futures Institute, scuola di specializzazione in architettura. Come ha affermato la stessa Lokko: “Noi architetti abbiamo un’occasione unica per proporre idee ambiziose e creative che ci aiutino a immaginare un più equo e ottimistico futuro in comune”. Il laboratorio del futuro recupera la funzione propulsiva dell’utopia rispetto alla visione minacciosa e distopica; dopo l’incubo pandemico, anche la biennale punta a un “rimbalzo” motivazionale, perché se è vero che sono tempi bui è vero anche che in un modo o nell’altro siamo costretti a costruire il futuro, perché come cantava qualche anno fa Vasco Brondi, in fondo “non c’è alternativa al futuro”.

Pensare il futuro portando a definitivo compimento il processo di decolonizzazione, frenare i più recenti tentativi di imperialismo neocoloniale, progettare un avvenire più sostenibile per relazionarsi al cambiamento climatico e interrompere lo sfruttamento distruttivo del pianeta: queste sono alcune delle vertenze di una nuova generazione di architetti, designer, artisti di origini africane, cresciuti in occidente e a capo di studi prestigiosi tra New York e Londra. Spesso si tratta di un tentativo di recuperare le origini, di riappropriarsi di una originarietà mai realmente perduta, di tornare ai fatti più crudi della storia per denunciare gli orrori dei genocidi fatti sulle spalle della gente d’Africa, quando gli africani non erano uomini bensì strumenti da lavoro per l'”uomo bianco”. Il passato conta molto nel laboratorio del futuro, soprattutto se il soggetto in questione è il continente africano. D’altronde, il pericolo dell’ingenuità dell’approccio progressista da parte dell’Occidente al tramonto è sempre dietro l’angolo: di Africa e rinascita africana si parla dagli anni Sessanta, di iniziative culturali e festival attraverso i quali l’occidente opulento si scrollava di dosso i sensi di colpa del proprio passato se ne sono sempre fatti. Quello che deve essere chiaro, è che gli ambienti di una fiera o di un expo non possono contenere in una dinamica di vetrinizzazione la rivoluzione che è in corso: non è più l’Occidente a guardare al sud del mondo, ma è il momento che sia il sud del mondo a lavorare autonomamente perché il “sorpasso”, come dicevamo, se non nei fatti però è ampiamente previsto.

Per queste ragioni, può sembrare un controsenso visitare i tanti padiglioni della biennale dove la presenza africana è praticamente nulla, per assistere agli allestimenti che i paesi non africani hanno ideato per raccontare in senso vago il futuro della progettazione architettonica o urbana, anche peggio il caso in cui i padiglioni abbiano deciso paternalisticamente di raccontare l’Africa (sempre con un “rapporto rispettoso” di subordinazione) oppure coloro che hanno optato per il fascino intramontabile del pauperismo come ritorno alle origini. Il rischio è che anche l’Africa, ovvero i protagonisti di questa nuova ondata in ambito di architettura e design, restino sedotti da tale pauperismo – perché artisti e creativi contaminati dall’Occidente, essendo cresciuti nelle scuole e nelle accademie del vecchio continente, Nord America compresa. In questa prospettiva, la Cina è già un passo avanti: rifiuta ormai di farsi raccontare, si racconta attraverso le meraviglie che l’evoluzione tecnologica contribuisce a generare mettendosi in vetrina piuttosto che farcisi mettere da altri. Il merito di questa Biennale è e sarà quello di essere stata una delle ultime ad adottare tale prospettiva sul continente “emergente”. In breve tempo, gli appuntamenti più significativi andremo a vederli a Kinshasa o a Lagos, e magari assisteremo a come l’Africa abbia trasfigurato esteticamente e progettualmente l’idea che essa ha della vecchia, nobile e malandata Europa.

The Laboratory of the Future. 18° Mostra Internazionale di Architettura
curato da Lesley Lokko
Giardini della Biennale, Arsenale – Venezia
dal 20 Maggio al 26 Novembre 2023