L’arte che nasce dalla Resistenza

Un’arte liberata, politica, originale, innovativa, impegnata, in grado di comunicare concetti ed emozioni: un’arte vera, quella in mostra a Palazzo Strozzi di Firenze fino al 22 luglio.

Gli States hanno immortalato l’epopea della loro nazione (sebbene sarebbe più corretto definirla Confederazione di Stati) in The birth of a Nation, il film del 1915 di David Wark Griffith che raccontava il Paese a stelle e strisce prima e dopo la Guerra di Secessione. In questi giorni, Palazzo Strozzi a Firenze, con il medesimo titolo, ma in italiano, racconta la storia dell’Italia dall’Unità alla Strategia della tensione – inaugurata con la strage di piazza Fontana a Milano (anche se nel filmato proiettato in una sala interna, in maniera antistorica e processualmente inesatta, vi si accenna come attentato di forze “estremiste”: un dettaglio che va ben oltre il revisionismo degli ultimi tempi).
Questo, quanto preannunciato dai video in loop nella prima sala. In realtà, la mostra stessa si concentra su un periodo preciso, dal Secondo dopoguerra alla fine degli anni Sessanta e su un gruppo di artisti che, forgiato dall’esperienza del conflitto mondiale e del fascismo, ha contribuito alla nascita di una nuova nazione, ossia quell’Italia antifascista, che ha visto la luce grazie alla Resistenza. Un Paese e una temperie culturale che hanno contribuito all’evoluzione di un’arte nella quale etica ed estetica si coniugavano, così come le scelte artistiche riflettevano quelle politiche e la visione socio-culturale impregnava le prese di posizione dei singoli autori ma anche di correnti e collettivi.
A raccontare i rivolgimenti di quel periodo, fecondo tumultuoso e vitale, già nella seconda sala campeggia L’ultimo dei Re di Mimmo Rotella (1961). Un décollage su tela, manifesti e colla che descrive quel Dopoguerra di riappacificazione nazionale che produrrà mostri: un’Italia nata dalla lotta contro il fascismo, che non riuscirà mai a defascistizzare ministeri e nuclei di potere, e sradicare quella mentalità tutta italica infarcita di idolatria per il capo supremo e razzismo – verso il meridionale, ieri; per il migrante, oggi. Accanto, Enrico Baj con Generale incitante alla battaglia (olio, collage, passamaneria, decorazioni su stoffa, 1961), dove l’inconfondibile mezcla dell’artista milanese esprime non solamente una feroce critica socio-culturale contro la guerra, ma anche l’insoddisfazione per quel realismo socialista che infarciva le tele di molti suoi colleghi.

Frigerio 2Nella sala successiva si entra prepotentemente nell’universo non figurativo. Spiccano Sacco e bianco (olio, intonaco, sacco, juta su tela, corda, 1953) di Alberto Burri e i tagli di Lucio Fontana, presente con Concetto spaziale, New York 10 (rame, 1962). Se Burri recupera i materiali poveri per dare consistenza materica alla sua visione di un mondo lacerato dalla Seconda guerra mondiale, di un tessuto (nel senso più pregnante del termine) sociale slabbrato, impoverito umanamente e allo stremo a livello economico, sporco e irrecuperabile; per Fontana, al contrario, quasi dieci anni dopo, sono le luci di New York, i suoi grattacieli simbolo di potere ed opulenza a incidere la lamiera in rame, che nella sua stessa luminosità abbacina l’artista, come farà a breve con l’intero Occidente. E i tagli, in particolare (al di là del cemento e i cristalli adombrati nelle incisioni), servono a Fontana per rimandare alla quarta dimensione, a quel cielo e a quelle prospettive che, a New York, si scorgono solo negli spiragli, nelle fessure tra i grattacieli.
La sala successiva è dedicata al monocromo. Si notano immediatamente le strisce di tela sagomata (con barre e fili metallici) di Composizione, Extramural n. 5, di Salvatore Scarpitta (1958). Come spesso accade di fronte alle opere di questo artista nato negli Stati Uniti ma per origine e formazione italiano, è la sensazione di costrizione, malattia, lacerazione intima che traspare da quel tessuto di un bianco sporco, metaforicamente immersivo, ripiegato su se stesso. Sensazione di angoscia che può provocare anche Lucio Fontana con il suo Concetto Spaziale. Attesa (idropittura bianca su tela tagliata, 1965) perché, sebbene l’artista affermasse di sentirsi “liberato dalla schiavitù della materia” di fronte ai propri tagli, per altri quei tagli possono aprirsi su lacerazioni inconsce, o su un futuro e universo altri – spaventosi in quanto lontani e incomprensibili.
Interessante la contrapposizione tra Superficie bianca (acrilici e tecnica mista su tela, 1968) di Enrico Castellani, esempio di estroflessione di una pulizia geometrica che diventa matrice etica, con Intersuperficie curva bianca (acrilico su tele sovrapposte, 1968) di Paolo Scheggi, dove la superficie del quadro non dialoga né à la Fontana con un al di là; né à la Castellani con il nostro spazio, al di qua della tela; bensì, in maniera autoreferenziale, con se stessa e le proprie dimensioni fisiche e temporali.
Un’intera parete è poi dedicata a Fausto Melotti. Spicca Metrò natalizio (ottone, 1965) per quel suo mettersi in relazione con la contemporaneità attraverso un linguaggio artistico che s’intesse di luci e ombre, di realtà materica e rimandi a un universo onirico; mentre spiccano per l’essenzialità modulare e una giustapposizione di pieni e vuoti, similari ai tasti bianchi e neri del pianoforte, a una geometria di suoni riflessi nell’etere, Bassorilievo Lance (inox, 1969) ed Ellissi (inox, 1964).
Decisamente ironico Burri (installazione in legno, 1966), dove Mario Ceroli – utilizzando un materiale povero e proprio dell’attività artigianale – mette in scena, con piglio teatrale, il confronto tra pubblico e opera/artista, il dialogo spesso intessuto di fraintendimenti tra poetica e resa, tra oggetto d’arte e occhio dello spettatore.
Dopo il bianco su bianco, ecco un’intera sala immersa nei giochi di luce su fondale nero. Questa è forse una tra le sale dove l’impegno politico e l’originalità dell’artista si fondono con maggiore convinzione e spregiudicatezza: L’Italia di pelo (pelliccia animale, 1969) e l’Italia (ferro e carta geografica, 1968, appesa e proiettata al contrario), entrambe di Luciano Fabro, sono una chiara denuncia di questa Nazione che ha ormai perso la bussola, votata al consumismo e all’edonismo, sempre più lontana dalle proprie origini e dai propri valori. Nella stessa sala anche una Margherita di fuoco (S.T., ferro, becco con collettore, tubo di gomma, bombola a gas, 1967) di Jannis Kounellis e un altrettanto celeberrimo neon (S.T., due bottiglie, neon, trasformatore e plastica, 1967) di Mario Merz.
Si chiude con Mappa di Alighiero Boetti (ricamo su tessuto, 1971/73) dove il mondo che ben presto soggiacerà alla globalizzazione neoliberista è ancora suddiviso in blocchi contrapposti che ne identificano scelte ideologiche e matrici socio-economiche.
Ormai prossimi alla performance art, il grande movimento artistico che ha rivoluzionato il fare arte unendo l’etica con l’estetica perderà la propria centralità e pulsione innovativa, in favore di modelli provenienti da Oltreoceano e di un’arte sempre più concettuale, avulsa dal fare artistico e votata alla bulimia di un mercato speculativo.

La mostra continua:
Palazzo Strozzi
piazza degli Strozzi – Firenze
fino a domenica 22 luglio
orari: tutti i giorni inclusi i festivi dalle ore 10.00 alle 20.00; giovedì dalle ore 10.00 alle 23.00

Nascita di una Nazione
Tra Guttuso, Fontana e Schifano
a cura di Luca Massimo Barbero